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Vi spiego che cosa sta sbagliando il governo su Cina e Usa

Basteranno le rassicuranti dichiarazioni del presidente del Consiglio circa la fedeltà atlantica dell’Italia per ristabilire un clima di fiducia? In politica estera i sospetti, alla fine contano molto di più della solennità delle dichiarazioni. E l’Italia, nella sua lunga storia, non ha certo contribuito a dare di sé un’immagine totalmente rassicurante. Il commento di Gianfranco Polillo

 

Che la Torino-Lione non diventi un’ossessione: invoca Giuseppe Conte, dalle pagine del Corriere della sera. Per carità: nessuna perversione. Ma poi ci vuole coerenza. Si può guardare con interesse e possibile sprezzo del pericolo al grande progetto di “connettività aurosiatica” nell’ambito dell’iniziativa Belt and Road con la Cina ed, al tempo stesso, rinunciare all’interconnessione dell’Italia con con il Corridoio Mediterraneo? La finiamo qui.

Meglio guardare agli altri tanti lati del problema dei rapporti tra l’Italia e l’Impero di mezzo. Sostiene sempre Conte: “Con Pechino dobbiamo riequilibrare la bilancia commerciale, attraverso un maggior accesso al mercato cinese per i nostri beni, dall’agroalimentare al lusso, e per i nostri sevizi”. Parola d’ordine che riecheggia nel Luigi Di Maio pensiero. Perfetta sintonia. Solo un in parte messo in dubbio da Matteo Salvini: “Aprire nuovi mercati alle imprese italiane e agli imprenditori italiani è fondamentale, però bisogna tutelare l’interesse e la sicurezza nazionale.”

Secondo i dati forniti dallo stesso ministero dello Sviluppo economico, nel periodo gennaio-novembre 2018, le esportazioni italiane verso la Germania, la Francia e gli Stati Uniti sono state pari al 32,2 per cento del totale. Quelle verso la Cina pari ad appena al 2,8 per cento. Sul fronte delle importazioni, invece, le prime sono state pari al 28,7 per cento. Mentre quelle dalla Cina sono ammontate al 7,3 per cento del totale. Confrontando i relativi dati è facile evidenziare un doppio squilibrio. La bilancia commerciale italiana è attiva rispetto a Germania, Francia e Stati Uniti. Mentre è passiva rispetto alla Cina. Ben venga quindi qualsiasi azione rivolta a riequilibrare quest’ultima situazione, favorendo la crescita delle esportazioni verso il quadrante orientale. Ma a condizione che questa strategia non pregiudichi i rapporti con l’Occidente.

Le motivazioni sono fin troppo evidenti: misurati dal diverso peso che hanno i due quadrati. Sulle esportazioni italiane verso i tre principali partner occidentali, quelle cinesi pesano per appena l’8,7 per cento. Maggiore é invece quel rapporto sul fronte delle importazioni (circa il 25 per cento). Ma questa asimmetria non fa altro che portare acqua al mulino dell’Occidente, quando lamenta l’eccessivo mercantilismo cinese. Dando, in qualche modo legittimazione ai successivi tentativi – soprattutto da parte americana – di limitarne il peso ricorrendo all’introduzione di dazi. Tentazione che si è più volte manifestata anche in Italia.

Dati questi rapporti di forza, nel dispiegarsi delle variabili del quadro macroeconomico, è facile individuare ciò che l’Italia deve o non deve fare. Deve tentare, certamente, di riequilibrare a proprio favore la bilancia commerciale con la Cina, aggredendo progressivamente il suo profondo rosso. Ma deve farlo senza irritare i suoi partner principali, che sono in Europa ed in Occidente. Altrimenti i piccoli vantaggi di un riequilibrio commerciale, potrebbero essere più che compensati dalle pesanti perdite su quei mercati che presentano un appeal decisamente superiore.

Si possono tradurre queste avvertenze sul terreno della politica? Certamente sì: dato che i segnali non sono mancati. Ma sono stati rumorosi ed altisonanti. Sia da parte americana che da parte della Commissione europea. Che Giuseppe Conte cerchi di minimizzare é più che evidente. Qualche segnale in controtendenza lo si è visto nelle ultime dichiarazioni di Michele Geraci, grande tessitore dei preliminari sul memorandum. Ma che vi sia sconcerto nelle principali cancellerie occidentali è più che evidente. Altrimenti queste ultime avrebbero attivato canali più riservati, rispetto alle pubbliche dichiarazioni piovute sulla stessa stampa. Tanto più che Giancarlo Giorgetti era appena di ritorno dal suo viaggio negli States. Quindi latore di messaggi non equivocabili.

Ma, evidentemente, quei canali riservati, che tra l’altro dovevano passare per il Ministero degli Esteri, non avevano prodotto i risultati sperati. Ed ecco allora la necessità di ricorrere a qualcosa di più esplicito. Basteranno le rassicuranti dichiarazioni del Presidente del consiglio circa la fedeltà atlantica dell’Italia per ristabilire un clima di fiducia? Non ne siamo così sicuri. In politica estera i sospetti, alla fine contano molto di più della solennità delle dichiarazioni. E l’Italia, nella sua lunga storia, non ha certo contribuito a dare di sé un’immagine totalmente rassicurante.

Quindi attenti a come muoversi. Un conto è operare d’intesa con i propri partner, pur rivendicando per sé spazi di autonomia, come quasi sempre è avvenuto. Basti pensare alla politica verso il Medio Oriente di Giulio Andreotti o Bettino Craxi. Un altro è pensare di poter fare di testa propria, nell’illusione di poter giocare, da soli, un ruolo ben più grande e gravoso rispetto alle proprie capacità. Come mostrano quei semplici dati sull’andamento del commercio estero, l’Italia non ha questa possibilità. Può bastare un niente a rovesciare una tendenza che finora ha agito in modo positivo. Non si dimentichi che dal 2012 in poi quel po’ di sviluppo che il Paese ha conosciuto si deve soprattuto alla positiva dinamica con l’estero. Mettere in discussione quegli equilibri, senza alcuna credibile contropartita, è solo un atto temerario, dalle insondabili conseguenze.

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