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Vi racconto opere, passioni e fissazioni di Eugenio Scalfari

Eugenio Scalfari, morto a 98 anni, ricordato da Francesco Damato

 

Come la morte delle persone alle quali si tiene, si è avuto rispetto, anche nel dissenso delle opinioni e delle iniziative, quella di Eugenio Scalfari alla bella e venerabile età di 98 anni, quasi centenario quindi, mi ha colto non abbastanza preparato.

Era da un po’ che non lo si leggeva: lui che pure era puntuale negli appuntamenti con i lettori, magari negli ultimi tempi più per filosofare che per raccontare o commentare la sua seconda passione – dopo la filosofia appunto – della vita che è stata la politica. Alla quale egli ha partecipò anche attivamente per alcuni anni come deputato eletto a Milano nelle liste socialiste, ma ancor più profondamente e lungamente con i suoi editoriali, che spesso dettarono la linea a partiti anche imponenti come fu quello comunista guidato da Enrico Berlinguer. Che lui votò con orgoglio persino ostentato, dopo essere stato fascista da giovane, come d’altronde era accaduto a tanti suoi coetanei, compreso il suo rivale in giornalismo Indro Montanelli. Il cui Giornale, nato nel 1974 da una scissione a destra, diciamo così, del Corriere della Sera, indusse Scalfari a fondarne un altro, contrapposto, a sinistra. Che fu la Repubblica.

Ho avuto la fortuna di essere testimone personale della correttezza dei loro rapporti. Nei tanti anni in cui, al Giornale appunto, partecipai alla contestazione del “compromesso storico” proposto da Berlinguer e sostenuto da Scalfari, arrivato con una intervista postuma ad Aldo Moro, appena ucciso dalle brigate rosse, per arruolarlo tra i favorevoli a quella prospettiva, e non solo ad una tregua parlamentare di “solidarietà nazionale” fra Dc e Pci com’era stata quella concordata nel 1976, Montanelli non si lasciò mai prendere dalla tentazione di una polemica personale con lui. E fra le sue rare direttive ai redattori, editorialisti, commentatori del Giornale c’era quella di risparmiare polemiche personali con Scalfari.

Anche Scalfari aveva la sua classe. Avversario dichiarato di Bettino Craxi, del cui governo annunciava o auspicava quotidianamente la caduta prematura, e al quale non rimproverava di avere “tagliato la barba a Marx” con quel saggio su Proudhon scritto a quattro mani con Luciano Pellicani, quando il leader socialista cadde sotto la ghigliottina giudiziaria di “Mani pulite” Scalfari smise di occuparsene. Molti altri invece ancora lo attaccano da morto da più di vent’anni e ne distorcono la storia politica e personale.

Debbo dire che come i buoni vini, Scalfari migliorò invecchiando, sino a scandalizzare i suoi presunti o dichiarati discepoli, e persino quello che alla fine era diventato il suo editore: Carlo De Benedetti. Gli capitò, per esempio, di preferire pubblicamente Silvio Berlusconi – che lui definiva “impresario” anche dopo che era diventato presidente del Consiglio  -ai grillini al governo. E di sostenere la riforma costituzionale di Matteo Renzi, osteggiata dagli amici Gustavo Zagrebelsky e Ciriaco De Mita. Di Renzi peraltro egli aveva cercato inutilmente di affinare il carattere e la cultura, raccontando – senza smentite – di avergli consigliato buone letture su cui poi lasciarsi interrogare, o quasi, da lui.

Sarà stato vanitoso, superbo, indisponente con quel “cono d’ombra” nel quale soleva mettere chi usciva dalle sue sue simpatie, ma Scalfari è stato sicuramente un grande giornalista. Al quale peraltro le figlie donarono un documentario a tratti toccante realizzato con la sua partecipazione. Che personalmente mi gustai vedendolo in televisione.

Addio, direttore. O arrivederci, se mai il tuo amico Papa Bergoglio ti avesse intimamente convertito a forza di frequentarvi e di scambiarvi carinerie.

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