Adesso che forzature procedurali e piene illegalità sono state definitivamente riconosciute e sanzionate dalla Corte Suprema, abbiamo la conferma che l’inchiesta Lava Jato ha camuffato fin dall’inizio alcuni caratteri di terrorismo politico. Dopo la Giustizia, l’ex presidente Lula da Silva ne è divenuta la vittima immediatamente seguente, anche simbolica nella predestinazione che gli era stata riservata dagli inquirenti, guidati (è il caso di sottolinearlo) da Sergio Moro. Oggi è il primo ostaggio a venir liberato d’ogni incriminazione dalla stessa guerra che continua. Con la Giustizia che rischia di restarne prigioniera. È questo il dato di fondo che connota la scena politico-giudiziaria brasiliana, nell’annuvolato tramonto dell’operazione anti-corruzione più clamorosa della storia latinoamericana (molte centinaia di processati e condannati, capi di stato, politici, imprenditori e manager famosi di mezza dozzina di paesi, tra i quali potrebbero esservi altri innocenti), tanto da suscitare un’eco mondiale.
Lava Jato è un vaso di Pandora ancora ben lontano dall’aver rivelato tutto il suo malefico contenuto, che attraverso la crisi del sistema giudiziario potrà riversarsi in ogni momento sulla difficilissima congiuntura politica ed economica che sta attraversando il Brasile a causa dell’erratico e corrotto governo di Jair Bolsonaro. Il grande paese sudamericano, una delle dieci maggiori economie del pianeta, non sta infatti di fronte alla conclusione di una vicenda di spessore storico, bensì a un suo reinizio; un reset dell’intera assai intricata vicenda giudiziaria, i cui risvolti politico-istituzionali si intersecano in un intreccio di sconfinamenti illeciti tra i diversi poteri dello stato che farebbe venire qualche mal di testa perfino a Charles de Montesquieu. Mentre restano non del tutto chiare finalità e modalità dei suoi diversi protagonisti.
A cominciare da quelle di Edson Fachin, lo stimato giudice della Corte Suprema saltato improvvisamente alla ribalta della cronaca per aver deciso — pare in assoluta solitudine — l’incompetenza giurisdizionale del tribunale che ha giudicato e condannato Lula. Facendo così decadere automaticamente i quattro giudizi istruiti contro di lui, che torna libero e nella totale pienezza dei diritti di cittadino. Pertanto — se lo riterrà opportuno, ma i dubbi non mancano — a fine dell’anno prossimo potrà candidarsi nuovamente alla massima magistratura dello stato. Fachin ha agito nelle sue prerogative, nessuno lo contesta. Lasciando tuttavia in un certo stupore gli altri dieci colleghi della Corte che gli avevano affidato la revisione del caso, senza forse prevedere la rapidità con cui ne sarebbe giunto alla conclusione e rendendola d’immediato pubblica.
Con la sua sentenza, egli dimostra senza alcun dubbio che per quanto concerne Lula l’inchiesta avrebbe dovuto essere trasmessa fin dall’inizio alla magistratura di Brasilia. Dunque tutto ciò che è accaduto invece a Curitiba, dall’altra parte del paese, dove Moro e il capo degli inquirenti, il suo collega Dallagnol, dominavano il tribunale, non ha valore e anzi costituisce un illecito. Non entra nel merito della mancanza di prove documentali a sostegno dell’accusa di corruzione per l’acquisizione occulta dell’appartamento al mare di Guarujà, sempre coerentemente negata dall’interessato. Né nel valore delle intercettazioni che pur testimoniano gli interventi illegali di Sergio Moro verso le altre istanze dell’inchiesta e finite con l’autorizzazione della Cassazione a farne uso giudiziario, nelle mani della difesa di Lula. Di queste si occuperanno gli istruttori di nuovi eventuali processi a suo carico e di sicuro quanto prima quelli che valuteranno le responsabilità penali di Sergio Moro.
Non manca chi si rammarica del “clamoroso errore di Fachin” (TV-Globo, Folha), che può mandare all’aria l’intera Lava Jato e ridare fiato alla corruzione. Ma a ravvivare quest’ultima hanno già pensato Bolsonaro e figli, secondo quanto già dichiarato dallo stesso Sergio Moro al momento in cui proprio per questo sarebbe stato costretto a lasciare il ministero di Giustizia e i fatti finora noti certamente non lo smentiscono. Una lettura dietrologica, sostenuta nondimeno da vari commentatori, sostiene invece tutto il contrario: Fachin avrebbe accelerato la separazione del caso Lula dagli altri, in quanto la sua fattispecie sarebbe suscettibile di provocare lo scoppio a catena di decine e decine di sentenze ottenute dall’inchiesta. Dunque è a questo presunto rischio che sarebbe stato tolto l’innesco. Come si vede, lontana dall’avviarsi a un termine, la battaglia tra governo, tribunali e procure appare in pieno svolgimento.
Per l’intanto, restituita alla politica, la vicenda entra già in clima elettorale. Sebbene anche così la sponda giudiziaria si presenti ineludibile. Lula non molla:” Nao è porque o jogo foi anulado que o juiz nao tem que ser suspenso…”, va ripetendo. E’ la sua tesi fin dal primo momento: si considera vittima di una congiura deliberata freddamente per liquidare lui e il suo partito, e della quale Moro sarebbe stato il dominus. Ciò che effettivamente è poi accaduto lo esaspera ulteriormente. Né è certo questo il momento in cui ci si può aspettare che taccia un uomo di 76 anni, gli ultimi due dei quali trascorsi tra processo e carcere, da sempre nella lotta politica: semplice militante, dirigente sindacale, fondatore del Partido dos Trabalhadores (PT), fino al palacio do Planalto, conquistato con una valanga di voti. Lui stesso è tuttavia ben consapevole che la sua candidatura è tutt’altro che scontata.
La popolarità del metalmeccanico presidente, malgrado tante vicissitudini, resta imponente. Qualche sondaggio la stima oggi oltre il 40 per cento delle intenzioni di voto. Non a caso Bolsonaro (che i sondaggi danno invece al 28), appena appresa la sentenza di Fachin si è preoccupato di delegittimarne l’importanza, affermando: “quel giudice è sempre stato vicino al PT… il popolo però non lo ama”. Vero è che il Brasile in cui la ritrovata agibilità politica ha paracadutato Lula, si presenta notevolmente diverso da quello di dieci anni fa, quando concluse il suo secondo mandato. Il flagrante deterioramento delle istituzioni e del suo stesso partito, il PT, seguito all’impeachment orchestrato dall’opposizione contro Dilma Rousseff, ha creato un disorientamento tale da permettere la successiva elezione di Bolsonaro, con la sovrapposizione delle crisi che ne sono conseguite.
Sommando al sostegno della gerarchia militare e dei settori tradizionali dell’impresa quello del fondamentalismo evangelico, capace di notevole influenza sull’elettorato meno avvertito delle immense, precarie e pericolosissime periferie urbane, Bolsonaro scommette sulla polarizzazione della battaglia elettorale. Alla quale l’opposizione si stava preparando a rispondere con un fronte il più ampio possibile, che riunisca tutte le forze democratiche e ambientaliste responsabili. La erratica, funesta gestione della pandemia da parte del governo, in definitiva il suo negazionismo del Covid, gli oltre 250 mila morti di uno sterminio di cui non si vede la fine, stanno riavvicinando anche vecchi avversari oltre che gruppi politici diversi, superando rancori personali e distanze ideologiche. La riabilitazione di Lula porta a questo progetto più scompiglio che fervore. C’è da credere che con maggiore o minore entusiasmo anch’egli se già non vi è entrato, si ponga in questo solco. Che allo stato nessuno può dire se incuberà la sua candidatura o un’altra.
Livio Zanotti