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Decreto Aiuti Bis

Vi racconto l’involontaria campagna elettorale di Draghi

I Graffi di Damato

 

Non per fare le pulci ai colleghi del manifesto, che peraltro ammiro per l’arguzia con la quale sanno abitualmente rappresentare in due parole sparate in prima pagina situazioni davvero ingarbugliate, ma mi chiedo perché abbiano voluto indicare come “indisponibile per il dopo” un Mario Draghi che non mi è apparso francamente tale nella conferenza stampa sul nuovo decreto legge di aiuti per 17 miliardi di euro, senza un centesimo in più di debito pubblico, a famiglie e imprese in difficoltà.

Lo stesso manifesto ha citato a supporto della pretesa indisponibilità ciò che il presidente del Consiglio ha opposto ad un giornalista sospettoso di una sua volontaria “ipoteca sulla guida del prossimo esecutivo” con l’azione di amministrazione per niente ordinaria che sta svolgendo in questa estate eccezionalmente elettorale e calda: “Sulla mia disponibilità a rifare il premier non rispondo. Quello che penso l’ho già detto altre volte”.

Draghi quando Giuseppe Conte aprì la vertenza della “forte discontinuità” e del “cambio di passo”, dopo averlo peraltro sospettato di avere tramato contro di lui alla guida delle 5 Stelle con telefonate a Beppe Grillo e con l’assecondamento della scissione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, disse di non essere disponibile a fare un altro governo in questa legislatura. Che in effetti è finita in anticipo, sia pure breve, come effetto di questa sola indisponibilità, non altro, confermata col no opposto alla richiesta formalizzata al Senato dalle componenti forzista e leghista della maggioranza di scaricare i grillini. O i “grillozzi”, come li chiama con allegria e indulgenza Giuliano Ferrara sul Foglio.

Sì, è vero. Draghi ha anche detto, in un altro passaggio preparatorio della crisi, di augurare alla democrazia nella prossima legislatura la formazione di un governo non anomalo come quello capitatogli di formare nel 2021 su incarico del presidente della Repubblica per l’accavallarsi di emergenze di vario tipo: un governo magari presieduto da un eletto dai cittadini al Parlamento, diversamente da lui che non è né deputato, né senatore. Né egli è stato tentato dall’idea di lasciarsi candidare al Senato o alla Camera da qualche partito in corsa, neppure fra quelli che più apprezzano e scommettono sulla sua cosiddetta “agenda”. Che, a scanso di equivoci, lo stesso Draghi ha tenuto a negare che esista, al di là di quella nella quale la segretaria, o il segretario, scrive i suoi appuntamenti quotidiani. Lui bada solo a fare ciò che si è impegnato a realizzare nella convinzione di non compromettere la propria “credibilità”. Che fino a quando è presidente del Consiglio -direi, per nostra fortuna – è anche la credibilità internazionale dell’Italia su ogni piano, compreso quello della nuova emergenza costituita dalla guerra in Ucraina.

Ma se neppure dopo le elezioni del 25 settembre; se neppure nelle nuove Camere di 400 deputati e 200 senatori eletti, contro i 620 e i 315 uscenti, i partiti e relativi gruppi parlamentari, non per questo ridottisi anch’essi di numero, anzi aumentati ulteriormente, riuscissero a indicare al capo dello Stato e a realizzare nelle aule e commissioni di Palazzo Madama e Montecitorio una maggioranza, o solo uno straccio di essa per provare ad usarlo, chi può seriamente garantire la indisponibilità di Draghi ad una nuova esperienza a Palazzo Chigi? Magari scommettendo, come fece a suo tempo Giuseppe Conte, sulla sua stanchezza fisica. Che non aveva peraltro impedito allo stesso Conte – altra gaffe, data la evidente impraticabilità dell’ipotesi di lavoro – di tentare il trasferimento di Draghi da Francoforte a Bruxelles, dalla presidenza della Banca Centrale Europea a quella della commissione esecutiva dell’Unione.

Stanco o non stanco che sia realmente, e non venga solo immaginato alla fine di una giornata o di un incarico, e anche a costo di incorrere nel sarcasmo del Travaglio di turno, con annessi e connessi assalti umani e politici, Draghi rimane il “nonno a disposizione” delle istituzioni per le sue competenze e la sua credibilità internazionale, e non solo dei suoi nipoti, descrittosi nella prima conferenza stampa di fine anno tenuta come presidente del Consiglio, nel 2021. Essa probabilmente gli costò davvero dopo qualche settimana il Quirinale, sbarratogli dal solito Conte anche quella volta col concorso di un Berlusconi messosi ostinatamente e inutilmente in corsa col sostegno formale del centrodestra. Ma non è per niente detto che la storia si ripeta, sia pure sotto la storica forma di farsa, anche perché diversi sono i palazzi, diverse le circostanze, diverso il peso di Conte. Che il 25 settembre rischierà di perdere anche la presidenza di quel che sarà rimasto del movimento lasciatogli a briglia così stretta dal solito, imprevedibile Beppe Grillo. Nel cui album delle figurine il conte rosso potrebbe finire come uno zombie di supplemento.

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