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Vi racconto le ultime tribolazioni di Conte. I Graffi di Damato

Perché il dossier prescrizione impensierisce il premier Conte al di là dell'aplomb del giurista-presidente del Consiglio. I Graffi di Francesco Damato

Nonostante il combinato disposto del Coronavirus e del festival canoro di Sanremo, che in questi giorni fanno notizia più di ogni altra cosa, sarà difficile a Giuseppe Conte, nella sua doppia veste di presidente del Consiglio e di professore di diritto, sottrarsi alle sollecitazioni a “prendere la palla” della prescrizione, come dice un titolo di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. E a giocarsela lui per evitare che finisca nel peggiore dei modi lo scontro già latente da tempo ma alla fine esploso a Cinecittà, nell’assemblea nazionale di Italia Viva, fra Matteo Renzi e il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. Che, sostenuto anche come nuovo capo della delegazione pentastellata al governo dal reggente del movimento Vito Crimi, non vuole saperne, almeno sinora, di ripristinare il conteggio della prescrizione dopo il primo grado di giudizio in attesa della riforma del processo penale, necessaria a garantirne concretamente, e non solo a parole, la “ragionevole durata” stabilita dall’articolo 111 della Costituzione.

Conte, sollecitato a gran voce ad occuparsene anche dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, peraltro infastidito dalla concorrenza di Renzi sul terreno del garantismo, se dovesse continuare a prendere o perdere tempo rischierebbe di concludere la verifica di governo, formalmente già cominciata dopo le elezioni regionali del 26 gennaio, non con la desiderata “agenda 2023”, per durare sino alla fine ordinaria della legislatura, ma con una più modesta agendina di non so quanti altri mesi o settimane di questo 2020.

Le difficoltà del presidente del Consiglio sul terreno della prescrizione nascono dal marasma in cui si trova il principale partito di riferimento personale e di governo, quello delle cinque stelle, dove si vive fra il terrore delle elezioni anticipate e la paura di sembrare a rimorchio anche dei nuovi alleati di governo, dopo l’esperienza dimagrante con i leghisti, e dalla modestia, a dir poco, del primo tentativo di mediazione non si sa se più compiuto davvero da lui o soltanto attribuitogli.

Si è scoperto, strada facendo, che il cosiddetto lodo Conte, offerto a Bonafede per limitare alle sole sentenze di condanna la sostanziale soppressione della prescrizione con una norma in vigore dal 1° gennaio, in modo da lasciare le cose come stavano per le sentenze di assoluzione, era né più né meno che una proposta già formulata da un omonimo del presidente del Consiglio: il deputato Federico Conte, del gruppo di Liberi e uguali, in prevalenza provenienti con Pier Luigi Bersani dal Pd.

La praticabilità di questa soluzione è stata ridotta a zero da un intervento recentissimo dell’ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick. Il quale ha ricordato, in particolare, la sentenza da lui stesso redatta con la quale i giudici del Palazzo della Consulta bocciarono a suo tempo la legge approvata dall’allora maggioranza di centrodestra per rendere inappellabili le sentenze di assoluzione.

Quella legge, per Flick analoga in linea di principio al cosiddetto lodo Conte, aveva il torto di violare la parità di trattamento garantita dalla Costituzione a tutti i cittadini, compresi gli imputati condannati, sino a sentenza definitiva di condanna. Neppure Amadeus, dal palco di Sanremo, riuscirebbe a convincere del contrario Flick e gli attuali giudici costituzionali.

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