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Brexit

Vi racconto le ultime puntate della telenovela Brexit

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Settimana convulsa, sulla Brexit, che si è conclusa con una ennesima prova di forza da parte della Premier britannica Theresa May: giovedì, a sera, Westminster ha approvato una mozione proposta dal suo Gabinetto, secondo cui ci sarà un terzo voto sull’Accordo di recesso dall’Unione europea che è stato concordato con Bruxelles.

Vien proprio da citare l’Amleto: “In questa follia c’è del metodo”: Westminster si pronuncerà nuovamente mercoledì prossimo, dopo averlo già bocciato per ben due volte, a larghissima maggioranza. Il punto cruciale sta nelle conseguenze del voto: se l’Accordo dovesse essere approvato, finalmente, ne deriverà solo la richiesta di un breve rinvio tecnico della Brexit, differita a fine giugno rispetto alla data del 29 marzo prevista dall’articolo 50 del Trattato. Occorrono ancora tre mesi, infatti, per finire di approvare le numerose normative che andranno a sostituire le precedenti fonti comunitarie. Nel caso di una ennesima bocciatura, si chiederà invece un rinvio della Brexit a più lungo termine, per nuovi negoziati, al cui esito nulla è scontato. Niente hard Brexit, dunque. Aleggia invece il fantasma del “no Brexit at all”.

Siamo al paradosso: chi non vuole l’Accordo sulla Brexit concordato dalla May a Bruxelles, perché lo ritiene un azzardo viste le tante incognite che gravano sulla effettiva possibilità che si concluda con una effettiva uscita della Gran Bretagna dall’Unione, ora dovrà accettare una prospettiva ancora peggiore: un nuovo negoziato in cui la Brexit si perderà davvero nelle nebbie bruxellesi.

In fondo, a Westminster, che per ben due volte ha già votato contro l’Accordo di recesso a larghissima maggioranza, è chiaro che la questione rimasta in sospeso, quella della frontiera irlandese, è stata strumentalizzata. La frontiera deve rimanere priva di barriere fisiche, anche nel caso in cui la Gran Bretagna non rimanga parte della Unione doganale, per rispettare gli accordi del Venerdì Santo. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e dall’Unione doganale imporrebbe invece di ristabilire un controllo fisico alla frontiera. Per evitarlo, con il backstop si blocca tutto, mantenendo la situazione attuale tra le due parti dell’Irlanda. Trovare una soluzione a questo dilemma non è stato finora possibile, e non lo sarà mai, a meno che la Gran Bretagna non accetti di diventare membro della Unione doganale europea. A quel punto sarà legata mani e piedi alla politica commerciale di Bruxelles, rimanendo un ricco mercato di sbocco senza barriere per le produzioni europee. Solo la Germania ha un attivo commerciale di 49 miliardi di euro l’anno.

Questo è infatti il vero obiettivo strategico di Bruxelles: tenere la Gran Bretagna fuori dalla gestione politica dell’Europa, ma dentro l’Unione doganale. Su quest’ultimo punto, invece, Theresa May non ha mai voluto cedere. Il gancio irlandese è dunque rimasto, e fa comodo anche ai sostenitori del Remain, che puntano su un allungamento dei tempi della Brexit: con nuove elezioni, se non con il ricorso ad un nuovo referendum, gli equilibri potrebbero ribaltarsi.

La Premier May ha sempre cercato un ibrido tra Brexit e Remain, una soluzione volutamente incerta, minacciando comunque conseguenze catastrofiche nel caso di una mancata approvazione dell’Accordo che ha raggiunto: prima ha terrorizzato i concittadini con i danni economici che deriverebbero da una hard-Brexit; poi ha prospettando che l’esito di un lungo rinvio della Brexit, necessario per instaurare nuove trattative, sarà la permanenza a tempo indefinito nell’Unione. Per evitare questa prospettiva, Westminster deve dunque cambiare idea, e finalmente votare a favore del suo Accordo.

Dopo il “doppio no” votato a Westminster tra martedì e mercoledì scorso, e con la prospettiva di un rinvio della Brexit, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, si era subito affrettato a tweettare: “durante le mie consultazioni prima del Consiglio europeo, chiederò ai 27 leader dell’Ue di essere aperti per un’estensione lunga se il Regno Unito troverà necessario ripensare la propria strategia sulla Brexit e per costruire il consenso attorno a questa”, lasciando dunque molto nel vago la portata del se ipotetico a cui ha condizionato la sua posizione favorevole al differimento del termine.

La reazione più chiara e decisa è stata ancora una volta quella della presidenza francese: per poter accettare una eventuale richiesta di differimento della Brexit avanzata da parte di Westminster è indispensabile indicare chiaramente gli obiettivi e le condizioni dei futuri negoziati. Questi ultimi sarebbero dunque ammissibili, c’è da ritenere, solo se venisse meno uno dei vincoli che hanno caratterizzato l’intera negoziazione condotta dalla Premier May, ovvero la esclusione in via di principio della prospettiva che la Gran Bretagna aderisca alla Unione doganale europea. Posizione, quest’ultima, che vede favorevoli i Laburisti inglesi, come linea di mediazione tra Brexit e Remain.

Theresa May, con la sua ultima mozione, ha spazzato via tutto, rimettendo nuovamente Westminster con le spalle al muro: il 20 marzo si vota nuovamente sul suo Accordo. Tutto si gioca ancora sul rimpallo delle responsabilità e sul ricatto del baratro in cui si cadrebbe nel caso di una terza bocciatura: la prospettiva è la “no Brexit at all”. Il Consiglio europeo, in ogni caso, è già convocato per il 21 marzo: il nodo è se accettare o meno la richiesta di un lungo rinvio non adeguatamente motivata, come ha chiesto la Francia. Un rifiuto del rinvio richiesto da Londra, se nel frattempo non fosse stato approvato l’Accordo da parte di Westminster, porterebbe ad una hard Brexit. Una responsabilità enorme.

Come se tutto questo groviglio non bastasse, è arrivato Donald Trump a rendere ancora più complesso il quadro internazionale, tweettando: “Siamo pronti ad un accordo di larga scala con Il Regno Unito, considerando il potenziale è illimitato”. Il Presidente americano si era pure lasciato andare ad un commento negativo sulla prospettiva di un secondo referendum sulla Brexit, definendolo “unfair”. Questo accadeva poche ore prima che lo Speaker dei Comuni, John Bercow, suscitasse l’ira dei Brexiter, non avendo ammesso tra le mozioni che saranno messe ai voti mercoledì prossimo quella che proponeva di escludere la possibilità di un secondo referendum. Lo Speaker ha replicato, ironico come sempre: i Brexiters devono prendere la vita serenamente, per come viene. Far buon viso a cattivo gioco.

Viene in mente una frase di Polonio, che sempre nell’Amleto afferma in modo assai obliquo: “E guarda che succede: che usando l’esca della falsità, peschi la carpa della verità. Così che noi, gente di giudizio, si riesce a trovar, per vie traverse, la direzione giusta”. Anche la Brexit, comunque vada, è una tragedia.

 

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