Con l’abitudine, e persino la mania, che ha di dare nomi troppo enfatici ai suoi progetti, provvedimenti e quant’altro, arrivando a chiamare, per esempio, “la madre di tutte le riforme” la legge allo studio sulle “semplificazioni”, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte se l’è un po’ cercata, cioè meritata, l’ironia di Stefano Rolli. Che nella vignetta di prima pagina sul Secolo XIX gli ha ricordato, diciamo così, che “il problema sono i padri” di quella e di tutte le altre leggi, o simili, allo studio del governo e della variegata maggioranza che lo sostiene, o dovrebbe sostenerlo in Parlamento.
Conte si è meritata anche l’ironia del vignettista Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno, dove il professore cerca inutilmente di fare apparire ai suoi interlocutori o alunni di turno per semplice ciò che sulla lavagna risulta sin troppo chiaramente complicato, anzi ermetico.
Il clima politico nella maggioranza, d’altronde, è quello che è. Ai rapporti sotterranei già insidiosi fra Conte e i grillini, che pure ne hanno sponsorizzato per due volte la guida del governo, prima con i leghisti e poi con le sinistre, si è aggiunto quello che Repubblica e La Stampa hanno chiamato, rispettivamente, “il grande freddo” e “il gelo” calato nei rapporti fra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti, ogni volta che essi si scambiano messaggi sulle questioni più calde della giornata. Dalle parti del Fatto Quotidiano, per esempio, notoriamente sensibile agli umori dei grillini, si sono affrettati a tradurre in un no a Zingaretti “il nesso” che Conte ha appena escluso o negato in Parlamento “tra il Mes”, notoriamente sostenuto con forza dal Pd per investire nel potenziamento del servizio sanitario il credito a buon mercato di 36-37 miliardi disponibile col meccanismo europeo di stabilità, “e politiche di bilancio, spesa pubblica e tasse”. La spesa pubblica della sanità peraltro è particolarmente a cuore alle regioni dove si voterà il 20 settembre e il Pd rischia grosso, più dei grillini che non ne hanno alcuna da difendere a loro guida.
Sugli aspetti elettorali del grande freddo o gelo fra grillini direttamente, stavolta senza l’intermediazione di Conte, e il Pd si è speso con un lungo editoriale Paolo Mieli, naturalmente sul Corriere della Sera da lui due volte diretto, titolato sull’”audacia che manca” ai due partiti. E quale sarebbe questa audacia? Quella di accordarsi, o quanto meno di tentare davvero un’intesa del tipo di quella prospettata dallo storico Marco Revelli. I grillini dovrebbero smetterla di contestare le candidature del Pd alla guida delle regioni interessate al voto di settembre in cambio della rinuncia di Zingaretti a contestare poi la conferma delle sindachesse grilline di Torino e di Roma, o di almeno una di esse.
Eppure lo stesso Mieli in un passaggio del suo editoriale ha dovuto ammettere che i pentastellati “stanno attraversando un momento troppo complicato perché si possa pensare che sia sufficiente una scossa elettrica per ottenere da loro un qualsiasi cambio di linea” rispetto a quella ce c’è, o non c’è per niente per la loro confusione interna, incapaci come sono persino di misurarsi in qualcosa che assomigli ad un congresso.
Più che sull’audacia che manca, ci sarebbe forse da interrogarsi sulla troppa audacia che hanno avuto M5s e Pd ad accordarsi per la formazione improvvisa, o improvvisata, del secondo governo Conte, visti tutti i nodi che stanno venendo al pettine anche con l’urgenza virale.