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Vi racconto le mediatiche svolte poco truci di Salvini e Di Maio. I Graffi di Damato

Che cosa dicono di nuovo Luigi Di Maio e Matteo Salvini secondo il notista politico Francesco Damato   Sicuramente aiutato anche dal fatto di giocare in casa, nella quasi sua Napoli, Luigi Di Maio ha pareggiato, quanto meno, il bagno di folla fatto il giorno prima da Giuseppe Conte al raduno dei pentastellati, nel decimo…

 

Sicuramente aiutato anche dal fatto di giocare in casa, nella quasi sua Napoli, Luigi Di Maio ha pareggiato, quanto meno, il bagno di folla fatto il giorno prima da Giuseppe Conte al raduno dei pentastellati, nel decimo anniversario della nascita del movimento di Beppe Grillo. Che, sornione, si è divertito a dare spettacolo fra il suo pubblico tenendosi lontano dal dibattito che lo divide dopo il repentino cambiamento di maggioranza e di alleati seguito, con la sua spinta decisiva, alla crisi agostana di governo provocata da Matteo Salvini.

Il dibattito, al netto di tutte le cortine fumogene che sollevano quanti lo vogliono nascondere, fuori e dentro il movimento, è sulla natura tattica o strategica, provvisoria o permanente, straordinaria o sistemica, dell’alleanza col Pd: l’ex partito di Bibbiano, come era stato liquidato sotto le Cinque stelle quando il partner di governo era Salvini e all’opposizione stavano Nicola Zingaretti e Matteo Renzi ancora insieme. Come insieme, ma da separati, ciascuno per conto suo, stanno per adesso nella nuova maggioranza

Di Maio, diversamente da Conte e da quella parte consistente del Pd che vorrebbe trasformare in una corazza l’attuale maggioranza, per quanto giù divisa e litigiosa sul bilancio e, più in generale, sui temi dell’economia, tanto da far gridare sulla prima pagina di Repubblica che “fra i tre litiganti l’Italia non gode”, ha preso come occasione, o pretesto, le difficoltà che emergono progressivamente in periferia per applicarvi lo schema romano, per lanciare questo messaggio: “Quella dell’Umbria non è un’alleanza col Pd, ma un’operazione civica”. Che, in quanto tale, par di capire che non possa essere scambiata per un’operazione nazionale, a meno che non si voglia pensare che anche alle elezioni politiche i partiti vogliano o possano decentemente nascondersi dietro qualche candidatura mascherata, o travestirsi.

Ancora più chiaramente il capo ancòra del movimento grillino ha spiegato così al suo pubblico i rapporti col nuovo, principale alleato: “Allora -mi chiederete- non possiamo più parlare male del Pd? E io vi rispondo: sì che potrai farlo, ma sei sicuro che serve ancora parlare male degli altri?”. E quindi – debbo presumere – anche dei leghisti? Coi quali i grillini hanno governato per 14 mesi e potrebbero tornare a farlo se col Pd non si riuscisse ad andare sempre d’accordo, par di capire – ripeto – dal ragionamento di Di Maio. E ciò, vista anche la premura con la quale egli ha rivendicato il ruolo ormai centrale del suo movimento, una volta che è stata salvata la legislatura uscita dalle urne l’anno scorso, in Parlamento i gruppi pentastellati detengono la maggioranza relativa e vendono il loro pane a chiunque, persino rovesciando la parabola andreottiana dei due forni ai tempi della Dc. Che si offriva modestamente, a suo modo, da cliente e non da fornaio.

La reversibilità delle alleanze rivendicata da Di Maio nella versione non più “rabbiosa” ma buonista, starei per dire, del suo movimento ormai evoluto, o stanco di dieci anni di improperi a tutti e per tutto, si è casualmente e immediatamente incrociata con una svolta almeno lessicale proprio del leader leghista Matteo Salvini in una lunga intervista al Foglio raccolta da Annalisa Chirico. Che Giuliano Ferrara, il fondatore del giornale, si diverte a chiamare Chirichessa perdonandole le incursioni nei campi da lui considerati nemici. E’ un’intervista che parla da sola già nei titoli: “Prove di Salvini 2.0” in prima pagina e “Idee per una Lega non truce” all’interno. Non male, editorialmente, bisogna ammetterlo.

A parte una contestazione di Conte aspra e sistematica, comprensibile d’altronde dopo tutto quello che si è sentito dire ancora da ministro dell’Interno nell’aula del Senato nel mese di agosto dal presidente del Consiglio, e uno sfottò -diciamo così- a Di Maio come ministro degli Esteri per l’improvviso approccio a competenze obiettivamente estranee alla sua esperienza politica, Salvini si è prestato di buon grado a tutte le occasioni generosamente offertegli dall’intervistatrice per farsi apprezzare, o scoprire, dai cultori delle buone maniere, dagli europeisti e dagli atlantisti. anche se Donald Trump in questi giorni – va detto con tutta onestà – sta un po’ troppo pasticciando con i valori occidentali. Egli è arrivato a rimproverare ai curdi di non avere partecipato allo sbarco in Normandia, quasi per giustificare la carneficina che ne vuole fare ora in Siria il sultano della Turchia.

In veste di ormai ex Truce, con la maiuscola applicatagli da Giuliano Ferrara, che peraltro sa essere truce pure lui quando prende di mira uno che gli sta soltanto antipatico, Salvini si è in qualche modo scusato anche di quei “pieni poteri” reclamati sulle spiagge nella intempestiva campagna elettorale d’agosto. Egli ha ammesso che è stata ed è “un’espressione forse equivoca”, che gli è costata il governo. Dove comunque egli ottimisticamente conta di tornare guidandolo, con l’ingresso a Palazzo Chigi “dal portone principale”, e senza bisogno di chiedere o guadagnarsi gli oracoli dell’inquilino di turno alla Casa Bianca. Ogni allusione a Conte, e al “Giuseppi” di Trump, è naturalmente voluta.

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