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Vi racconto le forzature istituzionali di Juncker sull’Italia e la procedura d’infrazione

Può un negoziatore anticipare le possibili conclusioni prima dell’avvio della trattativa? O non è più opportuno un momento di riserbo? Le dichiarazioni di Junker sul futuro dell’Italia, destinata ad una procedura d’infrazione che durerà anni, è stata un’innegabile forzatura. Il commento di Gianfranco Polillo

Saranno 48 ore di fuoco in quel di Bruxelles: due giorni in cui i responsabili finanziari dei Paesi membri discuteranno di tutto, ma soprattutto della situazione di coloro che presentano deficit eccessivi. Che nell’ordine sono: Grecia, Cipro e Italia. Con il Bel Paese a calamitare tutta l’attenzione possibile.

Al termine della riunione, un primo verdetto. Sarà definito il mandato da dare alla Commissione per il secondo round: il negoziato con l’Italia e gli altri “inquisiti” per evitare l’avvio di una procedura d’infrazione. Inutile aggiungere che la trattativa più significativa, data la diversa stazza delle relative economie, riguarderà proprio la controparte italiana. La riunione sarà informale, ma non per questo meno significativa. Anzi è proprio l’assenza delle luci della ribalta che garantirà una discussione più libera ed impegnativa. Si comprendono meglio, allora, alcune cose successe nei giorni precedenti.

C’è un interrogativo che attende risposta. Può un negoziatore anticipare le possibili conclusioni prima dell’avvio della trattativa? O non è più opportuno un momento di riserbo, in attesa di ricevere il necessario mandato dal dante causa? Le dichiarazioni di Jean-Claude Junker sul futuro dell’Italia, ormai inevitabilmente destinata ad una procedura d’infrazione, che durerà anni, è stata un’innegabile forzatura. Quasi a dire: è la Commissione e non l’organo politico che decide. In quella sede si possono discutere solo i dettagli. Ma il dado ormai è tratto. Non è così che ci si muove sul piano delle relazioni internazionali. Né tanto meno nei rapporti istituzionali. L’Eurogruppo, infatti, potrebbe assumere una decisione completamente diversa: valutare, ad esempio, che gli squilibri macroeconomici dell’Italia siano più rilevanti rispetto al pur necessario rispetto delle regole contabili. E farlo in ossequio agli stessi Trattati, che tale condizione hanno pure contemplato.

Un uomo prudente come Juncker, che ha speso un’intera vita nelle Cancellerie di mezzo mondo, non commette simili errori di grammatica. Tanto più (e su questo Matteo Salvini ha perfettamente ragione) se è al termine del suo mandato. Un tempo, quest’ultimo, che dovrebbe accentuate gli elementi di prudenza per non entrare a gamba tesa nei compiti della futura Commissione. Che dovrà essere il risultato di una complessa alchimia politica, dopo la batosta subita dai vecchi leader europei nell’ultima campagna elettorale. Se, quindi, contravvenendo ad ogni regola, Juncker dice le cose che ha detto, ci deve essere una ragione.

Quale? Le spiegazioni possono essere varie. Vuole, forse, negoziare con la delegazione italiana da una posizione di forza? Allo stato attuale la procedura è solo avviata. I responsabili finanziari l’hanno avallata, ma senza quei toni ultimativi, che si sono sentiti nei dintorni delle roccaforti burocratiche di Bruxelles. Insomma ad un’azione molto unidirezionale (e per molti versi riduttiva) delle tecnostrutture – i custodi dell’ortodossia – ha corrisposto una maggiore prudenza da parte dell’organo politico, cui spetta la decisione finale. Juncker non ha voluto tener conto di queste seppur sottili distinzioni. Ha preso la clava, invece di usare il fioretto. Il sospetto è che lo abbia fatto per condizionare, fin da subito, il dibattito all’interno dell’Eurogruppo. Un obiettivo che mira anche ad un discarico di responsabilità. Se procedura d’infrazione dovrà essere – la prima volta nella storia europea – non sarà colpa della Commissione, ma semplice riflesso del mandato ricevuto. Nel contempo, il suo Presidente avrà colto l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, vista la sequela di reciproci insulti con populisti e sovranisti.

Nell’aria aleggia tuttavia un sospetto ancora più grave. Vi sono ambienti europei che puntano sull’Italexit? Questo è l’interrogativo seppure sussurrato a mezza bocca. Se non ci riescono Claudio Borghi e Alberto Bagnai, con le loro teorie, allora, una piccola spinta, nel segno dell’irriducibilità, può aiutare. Si spiegherebbe così gli atteggiamenti irrituali, come quelli descritti. É infatti evidente che la mossa di Juncker ha esasperato gli animi ed offerto un’arma ai teorici del “non c’è niente da fare. Prima c’è ne andiamo ed è meglio per tutti”. Avrebbe quindi meritato una presa di posizione più ferma da parte dei massimi responsabili istituzionali italiani. Un richiamo al rigore delle procedure, senza entrare minimamente nel merito delle parole dal sen fuggite. Si spera che sia avvenuto, nelle forme proprie della diplomazia istituzionale. Tuttavia quella gaffe, inconsapevole o voluta, è rimasta. I mercati hanno capito il segnale, e gli spread sono aumentati nel corso della giornata. Non un bel vedere.

Se questa seconda ipotesi avesse un qualche fondamento, sarebbe come giocare con il fuoco. Fermare gli orologi della possibile crisi – ne è consapevole Pierre Moscovici – è interesse di tutti. Se qualcuno avesse un qualche dubbio rifletta sulle conseguenze della Brexit. Che ha fatto tanto male agli inglesi, ma che non ha portato certo un beneficio al resto dei Paesi membri. La teoria “meglio pochi ma buoni” è un gioco a somma negativa. Al termine del quale tutti i giocatori, escono dalla partita, con una perdita più o meno consistente. Nei grandi equilibri mondiali, sullo sfondo del confronto Usa-Cina, un’Europa ancora più piccola è il regalo migliore che possiamo fare non ai nostri tradizionali alleati – gli Stati Uniti – ma a quelle antiche potenze, compresa la Russia di Putin, uscite sconfitte dalla storia. Ed ora grandi miracolati nel processo di globalizzazione. Per questo la partita è così importante.

Il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, hanno qualche chance? Poche se accetteranno di discutere sulla base dei semplici parametri indicati dalla Commissione. Potranno ripetere promesse alle quali è difficile credere. Rispolverare ad esempio la spending review. Ma i dati della Banca d’Italia (Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione europea) dimostrano che la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi, è in linea con le medie europee. Il suo problema non è tanto la compressione, quanto la sua qualificazione per fornire servizi di standard adeguati. Insisteranno su privatizzazioni che non vengono alla luce. E che la Commissione ha già verificato, smontando tutte le passate promesse. Si dichiareranno disponibili a rivedere il sistema delle deduzioni e detrazioni fiscali (tax expenditures). Che tuttavia potranno essere razionalizzate solo in un’ottica di riforma complessiva del fisco. Onde evitare un ulteriore aumento delle imposte. Margini limitati. Perché il tema vero sono i grandi squilibri strutturali che stanno uccidendo ogni “voglia di fare”, gettando in un baratro senza fondo l’intera società italiana.

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