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Giorgetti

Vi racconto le convulsioni parallele di Lega e Movimento 5 Stelle

Le crisi parallele dei leghisti e dei grillini sotto il segno di Draghi raccontate dal notista politico Francesco Damato

Chissà che cosa è andato più di traverso a Matteo Salvini delle ultime notizie, sortite e quant’altro del suo amico personale, collega di partito, addirittura vice segretario o presidente e potente ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti, per le cui mani passano pratiche e affari cui gli elettori leghisti del Nord sono – credo – molto più sensibili di quelli, peraltro meno numerosi, del Sud. L’”incompiuto” appena datogli per i suoi sbandamenti, a dir poco, nei rapporti con i sovranisti in Europa, che sono un po’ come i dolci per i diabetici coi tempi che corrono nel vecchio continente? La libertà, diciamo così, presasi nel parlare dell’amico autorevolissimo Mario Draghi che potrebbe, o dovrebbe, diventare presidente della Repubblica continuando a dirigere “il convoglio” governativo, col cappello del conduttore infilato sulla testa del suo uomo di fiducia e ministro dell’Economia Daniele Franco? Già si sono scatenati i soliti difensori integerrimi della Costituzione a gridare al golpe, golpetto o golpone, secondo i casi, prendendosela con una Lega destabilizzante o eversiva.

O ciò che ha fatto traboccare il vaso del “capitano” leghista, tentandolo ad una “resa dei conti” nell’odierno Consiglio federale, è la foto galeotta della pizza non estemporanea ma ormai ciclica, abituale o quant’altro, che Giorgetti consuma col ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio? Che ormai incontra a Roma e dintorni più attori, comparse e protagonisti della politica interna che diplomatici o delegazioni di paesi stranieri, contando peraltro sul fatto che Mario Draghi svolge abitualmente la parte principale del lavoro che spetterebbe al titolare della Farnesina, pur avendo la cortesia, l’amabilità e quant’altro di citarlo ogni tanto, e anche di ringraziarlo sia per ciò che fa sia per ciò che più fortunatamente evita di fare, lasciandone il compito al presidente del Consiglio multi-lingue, oltre che multilaterale. E in questi incontri ciclici con Giorgetti il giovane Di Maio non si è mai lasciato convincere a cambiare idea su Salvini, di cui avrebbe scoperto solo nell’estate del 2019, dopo più di un anno di co-vice presidenza del Consiglio nel primo governo di Giuseppe Conte, la inaffidabilità. Anzi, la falsità da primato, messa per iscritto anche nel libro di memorie, e di amore per la politica, che il ministro degli Esteri ha appena pubblicato e sta presentando un po’ dappertutto in Italia. E pensare che capitan Matteo proprio in quell’estate del 2019 gli propose, ad un certo punto, di fare ciò in cui non era riuscito l’anno prima: insediarsi a Palazzo Chigi al posto di Conte.

Lui naturalmente, Di Maio, ex “bibitaro” di orgoglioso ricordo, trentacinque anni compiuti a luglio, già capo del MoVimento 5 Stelle, più volte ministro e una volta anche vice presidente della Camera, a mezza strada nella fantasia saggistica del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana tra la buonanima di Giulio Andreotti e forse il Papa felicemente regnante Francesco, si presume di una cristallina, beatificante sincerità, soddisfatto solo per caso della lezione appena ricevuta dal collega e ora superiore di partito Conte al gruppo grillino del Senato. Dove il fedele, adorante presidente uscente Ettore Licheri è stato bloccato con 36 voti pari nel tentativo della conferma da Maria Domenica Castellone. “Hanno la mia stima”, ha detto di entrambi il Tacito -si fa per dire- della cosiddetta terza Repubblica uscita dalle urne del 2018, con i pentastellati “centrali” come i democristiani nella prima. Che però vissero o sopravvissero per una cinquantina d’anni, contro i cinquantina mesi scarsi delle 5 Stelle.

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