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Italia Libia

Vi racconto la sconfitta ad Alta Velocità di M5S e Pd in Senato. I Graffi di Damato

Che cosa è successo al Senato sulle mozioni Tav e quali conseguenze avranno per M5S e Pd. I Graffi di Damato

 

Quei 181 voti con i quali è stata bocciata al Senato la mozione dei grillini contro la linea ferroviaria per il trasporto delle merci dalla Francia all’Italia, nota come Tav, non hanno segnato soltanto la sconfitta del Movimento 5 Stelle.

Non meno significativa, se non addirittura più decisiva sul piano delle prospettive politiche, è la sconfitta subita all’interno del Pd, in una battaglia svoltasi sotto traccia, dalla componente più aperta ai grillini e disponibile a lavorare per una maggioranza con loro da cui estromettere i leghisti dopo un passaggio elettorale reclamato dal segretario del partito Nicola Zingaretti nella consapevolezza di non poterne disporre per l’esclusiva competenza, in questo campo, del presidente della Repubblica. Un cui rifiuto di sciogliere le Camere, in caso di crisi, comunque motivato, potrebbe rimettere in gioco nel Pd i favorevoli a un’intesa con i pentastellati, ben piantati in Parlamento con la rappresentanza uscita dalle urne del 4 marzo dell’anno scorso, a dispetto del dimezzamento dei voti subito due mesi fa nel rinnovo dell’Europarlamento. Ma ora una prospettiva del genere si è fatta molto più difficile.

Costretto dalla coerenza politica a votare contro la mozione grillina anti-Tav, il Pd si è paradossalmente ritrovato in maggioranza non coi i pentastellati ma con i leghisti e, più in generale, col centrodestra. La delusione, il disagio, il fastidio e quant’altro sono chiari nel rammarico espresso dall’ex capogruppo del Pd al Senato e ora tesoriere del partito Luigi Zanda, un pezzo da novanta della corrente dell’ex ministro ed ex segretario Dario Franceschini. Che avrebbe preferito sottrarre il partito alla votazione sia per distinguersi dagli altri sì alla Tav sia per cercare addirittura di far prevalere la mozione grillina, scommettendo in questo caso su una crisi di governo promossa dai leghisti.

Questi ultimi invece sono usciti dal passaggio del Senato doppiamente vincenti. Essi hanno portato a casa sia la conferma del sì alla Tav, o alla versione maschile preferita dal Fatto Quotidiano, che ora accusa la Lega di di volere più corpose “poltrone”, sia l’ulteriore ridimensionamento dei grillini all’interno della compagine ministeriale. Di cui Luigi Di Maio sarà probabilmente costretto anche a subire un rimaneggiamento, o rimpasto, ben più di quanto non avesse immaginato o messo nel conto con la batosta elettorale del 26 maggio.

Le capriole alle quali hanno dovuto ricorrere i pentastellati nel tentativo davvero disperato, e fallito, di salvare la faccia sono state davvero spettacolari. In particolare, essi hanno reinventato la centralità del Parlamento per affidargli l’ultima parola sulla Tav dopo averlo svuotato, o comunque depotenziato, con una riforma che ne ridurrebbe la consistenza e valorizzerebbe invece la democrazia cosiddetta dei referendum anche propositivi, per non parlare della valanga dei decreti legge di cui hanno sommerso le Camere e delle umilianti procedure sommarie imposte nell’esame del bilancio alla fine dell’anno scorso.

In secondo luogo i grillini hanno dovuto umiliare, a dir poco, il “loro” presidente del Consiglio, che si è tenuto fisicamente lontano dall’aula del Senato per non assistere allo spettacolo da “carrozzone”, secondo il manifesto, di due sottosegretari che, in rappresentanza dello stesso governo ma per conto dei grillini e dei leghisti, si sono rispettivamente rimessi all’esito della votazione e rivendicato il merito di avere sostenuto l’opera contestata dai grillini e alla fine riconosciuta vantaggiosa da Conte per i maggiori costi che sarebbero derivati dalla rinuncia.

In terzo luogo i pentastellati hanno paradossalmente aperto, dietro la facciata della ritrovata compattezza contro la Tav un’altra fase interna di recriminazioni di cui potrebbe essere destinato a subire prima o poi le estreme conseguenze il capo ancora formale del movimento, Di Maio. Che non a caso ha dovuto sconvocare all’improvviso una riunione congiunta dei suoi gruppi parlamentari, così come Conte, dopo un incontro con Salvini, ha dovuto annullare una conferenza stampa già indetta precipitosamente per oggi.

Pur di evitare una crisi e ancor di più le elezioni anticipate, Di Maio -si vedrà se anche Conte- ha tradotto il tanto declamato “cambiamento” sotto le stelle in un personale salto indietro, ai tempi Gazzetta.jpge ai costumi della parte più disinvolta della buonanima della Dc: quella che si riconosceva nella massima andreottiana del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ma ciò -va detto- senza avere della buonanima di Andreotti la conoscenza della macchina dello Stato, la proverbiale arguzia, che ne faceva un monumento, e le relazioni internazionali, ben oltre il Tevere più o meno largo di spadoliniana memoria: un Tevere che in un Paese cattolico come l’Italia, dove Salvini ostenta crocifissi e rosari nei comizi, è decisamente più importante del Po venerato dalla Lega di Umberto Bossi.

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