skip to Main Content

Giorgetti

Vi racconto la politicizzazione della giustizia

Il guaio è che la politicizzazione della giustizia è dannatamente continuata ben oltre la fine e sepoltura della prima Repubblica. La stiamo ancora vivendo.

Anche Rosilde Craxi, la compianta sorella di Bettino e moglie dell’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri, usava commentare l’esplosione di Tangentopoli, nel 1992, vedendo negli eccessi della magistratura, tra retate di arresti e raffiche di avvisi di garanzia spesso destinati neppure a sfociare in rinvii a giudizio, che la politica raccoglieva i frutti dei gravi errori commessi durante gli anni del terrorismo. Allora in effetti la politica spesso non aveva preceduto ma seguito l’azione  giudiziaria, alimentando l’impressione che fossimo venuti a capo capo di quella tragica stagione per merito soprattutto dei magistrati. Che avevano lasciato peraltro sul campo, quasi a dimostrazione dell’assunto, più vittime dei politici, anche  se non celebri come le seconde, specie col sequestro e infine l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978.

Ne parlai una volta con Bettino nella sua casa di Hammamet e lo trovai agguerrito nella reazione, anche se stava confutando una tesi della sorella, e dandomi l’impressione che ne avesse già discusso direttamente con lei. Egli sostenne, in particolare, che quella del terrorismo fosse stata un’emergenza reale, e terribile, nella quale si poteva in  qualche modo considerare inevitabile una reazione giudiziaria più tempestiva di quella politica. Sarebbe stata invece tutta montata, mediaticamente e giudiziariamente, l’emergenza “morale” invocata per giustificare dal 1992 in poi l’applicazione quanto meno anomala dei codici penale e di procedura penale, abusando a tal punto, per esempio, dell’arresto durante le indagini preliminari da fare sbottare anche un ex magistrato come l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, peraltro ministro dell’Interno nei suoi governi, fra il 1983 e il 1987.

In effetti, come ho già ricordato evocando i precedenti della crisi politica in corso, inciampata anch’essa sui temi della giustizia, essendo scoppiata in tempo per evitare uno scabroso dibattito parlamentare sulla relazione annuale del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, nel 1994 il presidente della Repubblica non mosse obiezione alcuna ad un decreto legge varato dal primo governo di Silvio Berlusconi, ancora fresco di nomina, per dare una stretta alle cosiddette custodie cautelari.

Eppure c’era il sospetto, a torto o a ragione, che quel decreto fosse stato accelerato dal governo per prevenire l’arresto, che era in aria, di Paolo Berlusconi, il fratello del presidente del Consiglio. Scalfaro firmò ugualmente senza battere ciglio, sorprendendo i magistrati di Milano, che poi protestarono minacciando pubblicamente le dimissioni.  Ad essi invece il presidente della Repubblica si era accodato -pace all’anima sua- l’anno prima rifiutando la firma ad un decreto legge predisposto dal primo governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli: provvedimento che pure era stato concordato col Quirinale, articolo per articolo, o addirittura comma per comma, tra numerose interruzioni di un Consiglio dei Ministri poi raccontato come testimone da Sandro Fontana, il compianto ex direttore del giornale ufficiale della Dc Il Popolo.

In esecuzione del decreto Biondi, dal nome del ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi, furono scarcerati  numerosi detenuti, nonostante le proteste dei magistrati della Procura ambrosiana. Ad arenarlo, con la rinuncia alla sua conversione in  legge, e a condividere quindi le proteste delle toghe milanesi, provvide invece la Lega di Umberto Bossi. Che ordinò personalmente al pur riluttante ministro dell’Interno Roberto Maroni, peraltro avvocato, di dichiarare di non avere letto o capito bene il decreto prima di firmarlo con il guardasigilli, o addirittura di avere firmato qualcosa di diverso da quello poi visto sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Berlusconi abbozzò, senza peraltro riuscire a sottrarsi ad una crisi che sarebbe scoppiata dopo alcuni mesi, sempre per iniziativa della Lega ma sul tema pensionistico reso incandescente dalle proteste dei sindacati contro una riforma in cantiere.

L’emergenza morale invocata, e condivisa da quasi tutti i giornali, i cui cronisti giudiziari si scambiavano le notizie come in un pool per una rappresentazione univoca delle indagini che asfaltavano i partiti di governo della cosiddetta e morente prima Repubblica, era a dir poco discutibile per il semplice fatto che la politica costava alla luce del sole almeno dalle dieci alle cento volte di più di quanto previsto dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti. All’improvviso si decise di contrastarne durissimamente le dimensioni e i metodi illegali, in una carneficina mediatica dalla quale si salvarono, e neppure del tutto, solo i comunisti o già post-comunisti per la ferrea disciplina, reticenza e complicità cui erano abituati. Ricordo il nome “Gabbietta” del conto di un celebre raccoglitore di fondi del Pci e poi Pds-ex Pci, che divenne un mito fra i militanti nei congressi e nelle feste dell’Unità. Si chiamava Primo Greganti.

Una conferma involontaria alla interpretazione o rappresentazione di Craxi del marasma politico scatenato dalle iniziative giudiziarie nel 1992 e anni successivi,  è venuta dopo la morte del leader socialista, di cui è ricorso in questi giorni il ventunesimo anniversario, da una fonte insospettabile: l’ultimo  segretario del Pci e primo del Pds-ex Pci Achille Occhetto. Il quale, evocando qualche tempo fa la fatica da lui fatta per salvare il suo partito dal crollo del muro di Berlino, si è lasciata scappare una confessione tanto onesta quanto tragica per capire e valutare quegli anni.

In particolare, Occhetto riconoscendo che si pose allora il problema assai difficile di ridisegnare la sinistra con un Craxi inviso a gran parte della base comunista -anche perché con stile che apparve a molti di annessione il segretario del Psi festeggiò la caduta del muro di Berlino con l’esposizione della bandiera dell’”Unità socialista” alle  finestre della sede nazionale del suo partito- ammise che il colpo di grazia a quell’impresa venne dalla pur “meritoria” e “obbligata” azione giudiziaria chiamata “Mani pulite”. Che si estese rapidamente da Milano ad altre Procure, con eccessi lamentati di recente persino da Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo di quell’inchiesta.

Costretti dalla popolarità di quell’azione- ma anche, direi, dalla direzione prevalentemente a senso unico delle indagini- a sostenere e persino inseguire i magistrati, i comunisti finirono per avvelenare i pozzi anche della sinistra italiana da ridisegnare. Negare a questo punto la politicità dell’azione della magistratura dopo l’emergenza reale del terrorismo, non sfruttabile a fini di una parte politica o dell’altra, e datarne l’inizio nel 1992, mi sembra francamente impossibile, pur con tutta la buona volontà e buona fede che ci può mettere un contestatore, in toga o in penna che sia.

Il guaio è che la politicizzazione della giustizia è dannatamente continuata ben oltre la fine e sepoltura della prima Repubblica. La stiamo ancora vivendo.

Back To Top