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Caso Barrack

Vi racconto il keynesismo reaganiano di Trump sulle grandi opere

Pubblichiamo un estratto di “Apocalypse Trump. Un presidente americano tra Mao e Andreotti” di Stefano Graziosi, edizioni Ares (2018).

In questa complicata situazione, è abbastanza difficile ritenere che una riforma come quella infrastrutturale possa essere approvata dal Congresso senza il sostegno di qualche deputato democratico.

D’altronde, questa linea variegata in seno all’amministrazione è testimoniata dalla presenza di profili fortemente diversi: profili che, per l’appunto, si dividono tra fautori del liberoscambismo e propugnatori del protezionismo. I

l segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, è forse la figura che cerca maggiormente di creare una sintesi tra le varie correnti di pensiero in seno al gabinetto presidenziale. Ex partner a Goldman Sachs, la sua nomina suscitò all’inizio non poche polemiche, visto che proveniva da un istituto finanziario che lo stesso Trump, in campagna elettorale, aveva duramente criticato come rappresentante dello strapotere di Wall Street, nonché in quanto notorio sostenitore dei Bush e dei Clinton. Alla luce di tutto questo, il background culturale di Mnuchin era profondamente legato alla linea liberista. Eppure, una volta asceso alla guida del Dipartimento del Tesoro, il segretario ha mantenuto una linea un po’ ondivaga. Se, in tema fiscale, ha appoggiato la vigorosa detassazione reaganiana, sul fronte commerciale ha difeso le scelte protezioniste del presidente.

In tal senso, Mnuchin è una figura complessa, che riflette un certo pragmatismo (non scevro, forse, da qualche tratto opportunista). Discorso abbastanza differente riguarda invece uno degli uomini chiave dell’attuale amministrazione, il consigliere al Commercio, Peter Navarro: il vero ideologo dei dazi di Trump.

Quella di Navarro è una figura piuttosto inconsueta nel panorama politico americano. Dopo la formazione ad Harvard, dal punto di vista accademico si è generalmente occupato di questioni energetiche. E, in qualità di esperto, ha lavorato in passato come analista presso il Dipartimento dell’Energia. L’università tuttavia gli è sempre andata un po’ stretta e ha quindi iniziato a interessarsi di politica. Nel corso degli anni, si è difatti candidato a sindaco di San Diego, al Congresso e a vari seggi locali, presentandosi sia come indipendente sia come affiliato al Partito Democratico. Tuttavia, nonostante l’impegno, non è mai riuscito a farsi eleggere (probabilmente anche a causa della sua eterodossia politica). Le cose cambiarono nei primi anni 2000, quando iniziò a trattare di macroeconomia, elaborando la visione politico-economica che lo avrebbe accompagnato fino a oggi.

Una visione radicalmente mercantilista, caratterizzata da tratti protezionistici e nazionalisti: una visione che aveva (e ha) il suo bersaglio principale – guarda caso – nella Cina. Era il 2011 quando Navarro diede alle stampe il suo saggio di maggior successo, Death by China: una durissima critica nei confronti di Pechino, accusata senza remore di violare le regole del commercio.

La Repubblica Popolare – questa la tesi di Navarro – ricorrerebbe ad alcuni espedienti illeciti per colpire gli Stati Uniti: in pratica, puntellerebbe illegalmente il proprio export e manipolerebbe la propria valuta, inondando di merci a basso costo il mercato americano. Tutto questo ha condotto Navarro verso posizioni non solo scettiche ma anche assai critiche nei confronti del capitalismo internazionale e della globalizzazione. Posizioni che gli hanno procurato gli strali di gran parte del mondo accademico.

Eppure queste posizioni, nel corso del 2016, attirarono l’interesse del comitato elettorale di Trump e – in particolare – del genero del presidente, Jared Kushner. In questo modo, Navarro entrò nell’entourage del magnate newyorchese, divenendone in buona parte l’ideologo in materia economica e acquisendo – dopo la vittoria novembrina – un ruolo interno alla neonata amministrazione. Nominato consigliere al Commercio, Navarro non si è tuttavia sempre trovato a suo agio. Nel corso del 2017, non riusciva infatti a ritagliarsi adeguati spazi di manovra, dal momento che si sentiva coartato dall’allora consigliere economico, Gary Cohn. Non era del resto un mistero che i due non si potessero soffrire.

Liberista di ferro, Cohn non apprezzava il protezionismo di Navarro e ha sempre cercato di mettergli i bastoni tra le ruote. Trump, dal canto suo, ricorreva a due figure così distanti proprio per barcamenarsi tra le varie correnti dell’elefantino (e non solo). Ciononostante, nel corso dei mesi, Navarro è man mano stato capace di imporsi, mentre Cohn è progressivamente caduto in disgrazia, sin quando – al primo annuncio dei dazi – ha optato per le dimissioni, in polemica con la linea protezionista del presidente. In questo senso, è abbastanza chiaro che l’autentico regista di molte delle scelte economiche attuate da Trump sia proprio Navarro.

Non dimentichiamo infatti che, oltre alla Cina, il professore abbia più volte tacciato la Germania di concorrenza sleale ed è stato anche un feroce critico della Trans Pacific Partnership: un accordo che, guarda caso, il presidente ha stracciato appena tre giorni dopo essere entrato in carica. Un accordo in cui si è detto favorevole a rientrare solo nel caso di una rinegoziazione effettivamente vantaggiosa per gli Stati Uniti. La linea di Navarro, insomma, si è fatta sentire. Anche per questo, molti credevano che Trump avrebbe scelto proprio lui come consigliere economico al posto di Cohn. Invece il magnate ha alla fine optato per Larry Kudlow: un liberista reaganiano che, comunque, ha sostenuto le tariffe di Trump su acciaio e alluminio.

Non senza qualche tensione, tuttavia. Sembra infatti che, insieme a Mnuchin, abbia cercato di spingere il presidente ad ammorbidire la sua linea anti-cinese, suscitando così un certo astio da parte di Navarro. In tal senso, è chiaro che il magnate cerchi di destreggiarsi tra le correnti contrastanti. Segno di come decisionismo e andreottismo non possano fare a meno di andare a braccetto. Gli equilibri politici elettorali e quelli interni al Partito Repubblicano sono infatti delicatissimi. E, come abbiamo visto, l’elettore medio della Rust Belt, per cultura e portafogli, non digerisce troppo le ricette repubblicane classiche, che considera nulla più che come un favore ai ricchi. Ed è per questo che, soprattutto in materia economica, Trump propende spesso per una linea un po’ cerchiobottista, che mira a mettere insieme liberisti e protezionisti (nella speranza che non si scannino a vicenda). Infine, la tendenza del presidente ad assumere posizioni economiche non eccessivamente nette si è manifestata anche da quanto accade con la Federal Reserve.

Dal 2013, il presidente della Fed era Janet Yellen. Nominata da Obama, è sempre stata fautrice di una politica monetaria espansiva, oltre a essere più interessata al contenimento della disoccupazione che a quello dell’inflazione: linea, questa, che le attirò le antipatie di gran parte dei repubblicani. Durante la campagna elettorale del 2016, Trump la attaccò più volte. Tuttavia è interessante notare come alla base di quelle critiche non ci fosse in realtà un’opposizione alla sua politica monetaria in quanto tale.

Il miliardario sosteneva infatti che la linea di Janet Yellen «drogasse» l’economia americana, avvantaggiando così – in periodo elettorale – il Partito Democratico (che allora era al governo). Ciononostante, Trump non ha mai trovato troppo fastidiosa una politica monetaria tendenzialmente espansiva e, non a caso, ha scelto Jerome Powell come successore della Yellen. Repubblicano, nel contrasto tra colombe e falchi in seno alla Fed, era considerato un centrista. L’idea originaria era quindi, da parte di Trump, quella di mantenere i tassi di interesse bassi: un elemento, per il magnate, finalizzato a sostenere le esportazioni statunitensi. A riprova di ciò sta il fatto che, nel luglio del 2018, il presidente abbia biasimato la scelta della Fed di rialzare i tassi. Segno di come, anche in questo caso, Trump non sia esattamente il migliore amico dell’ortodossia repubblicana.

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