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America

Vi racconto il trumpismo trasversale di Trump sulle grandi opere (e non solo)

Pubblichiamo un estratto di "Apocalypse Trump. Un presidente americano tra Mao e Andreotti" di Stefano Graziosi, edizioni Ares (2018).

Sempre nel suo obiettivo di tenere salda la presa elettorale sulla classe operaia impoverita della Rust Belt, Trump si è anche occupato di proporre una decisa riforma infrastrutturale.

Dai tempi della campagna elettorale, infatti, è convinzione del magnate che un’azione energica a favore delle fatiscenti infrastrutture statunitensi possa costituire uno strumento efficace nella lotta alla disoccupazione. Una linea, questa, molto vicina a quanto professato dalla sinistra democratica: si pensi soltanto al fatto che, durante le ultime primarie dell’asinello, la questione infrastrutturale fosse uno dei cavalli di battaglia avanzati da Bernie Sanders.

In sostanza, l’idea di Trump sarebbe quella di varare un piano ambizioso di investimenti pubblici e privati che avvii la riparazione delle infrastrutture statunitensi. Nel dettaglio, la cifra complessiva dovrebbe aggirarsi intorno a un trilione e mezzo di dollari: di questi, circa 200 miliardi dovrebbero essere iniettati direttamente dal governo federale (soprattutto sotto forma di incentivi pubblici ai singoli Stati).

Neanche a dirlo, questa proposta ha incontrato le ostilità di una parte del Partito Repubblicano che considera una simile riforma un inaccettabile esempio di invasività statalista. Soprattutto i liberisti ortodossi ritengono queste politiche troppo vicine al modello del New Deal: il piano di investimenti pubblici messo in atto negli anni Trenta dal presidente democratico Franklin D. Roosevelt per assorbire la disoccupazione.

Un piano che viene da molti repubblicani visto (ancora oggi) come il fumo negli occhi. Come nel caso dei dazi, Trump ha deciso di mettere nel cassetto la riforma infrastrutturale durante il primo anno di governo (anche perché all’epoca il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell si era detto decisamente contrario a cospicui investimenti pubblici).

Eppure il miliardario è poi tornato alla carica. E lo ha fatto in occasione del discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2018. Trump ha difatti ribadito la necessità di un intervento sulle infrastrutture e, nelle settimane successive, ha esposto un piano maggiormente dettagliato. Un piano che ha anche cercato di venire almeno parzialmente incontro alle titubanze dei repubblicani, limitando l’investimento pubblico previsto (lo abbiamo detto) a 200 miliardi di dollari.

Una cifra che molti suoi compagni di partito continuano tuttavia a considerare eccessiva. Anche perché, fanno notare soprattutto i conservatori fiscali, questi soldi finirebbero con l’aumentare ulteriormente la spesa pubblica e – con una riforma fiscale come quella approvata nel 2017 – c’è effettivamente un problema di coperture non indifferente.

Di nuovo, vediamo come la politica economica di Trump, nel suo complesso, tenda a mettere insieme elementi profondamente eterogenei. Un fattore almeno in parte spiegabile con la natura politica trasversale dell’attuale presidente: un trasversalismo che non può fare a meno di accontentare un po’ tutte le parti in gioco. Se, da una parte, Trump non può permettersi di rompere con il suo partito (anche se, dipendesse da lui, su molti argomenti lo farebbe volentieri), dall’altra non può neppure permettersi di alienarsi le simpatie del suo elettorato di riferimento (che, storicamente, con i repubblicani tradizionali non ha troppo a che fare).

In questa complicata situazione, è abbastanza difficile ritenere che una riforma come quella infrastrutturale possa essere approvata dal Congresso senza il sostegno di qualche deputato democratico.

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