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Russia Turchia

Vi racconto i veri trambusti fra Stati in Libia

Ecco le forze e gli Stati che si fronteggiano in Libia. L'approfondimento di Tino Oldani per Italia Oggi

Impegnata a contrastare le conseguenze della pandemia da Covid-19, l’Italia sembra avere dimenticato che in Libia, paese ricco di fonti petrolifere e di migranti a poche centinaia di chilometri dalle proprie coste, sta infuriando una guerra sempre più sanguinosa. Una guerra iniziata circa un anno fa, quando il generale Khalifa Haftar, leader della Cirenaica, sferrò un attacco contro Tripoli, con l’obiettivo di rovesciare il governo di Fayez al Sarraj, finora unico governo libico riconosciuto dall’Onu e da alcuni paesi, tra cui l’Italia, che per la verità, con il governo di Giuseppe Conte, ha assunto via via una posizione equidistante tra Haftar e al Serraj.

Di tutt’altro avviso si è invece dichiarata la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, che da mesi si è schierata al fianco di Tripoli, con il risultato che quella in Libia è diventata una guerra sempre più internazionale, visto che Haftar ha continuato a godere dell’appoggio militare di una serie di paesi, quali la Russia di Vladimir Putin, l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi, più l’appoggio politico di paesi europei quali Francia, Grecia e Cipro.

Grazie al sostegno di tutti questi paesi, la vittoria di Haftar era data da mesi per scontata, una mera questione di tempo. L’intervento risoluto della Turchia ha però rovesciato le sorti del conflitto, quantomeno a giudicare dal bilancio più recente degli scontri armati. Forte di un esercito di ottomila mercenari reclutati in Siria, e con l’appoggio di droni, aerei e navi da guerra, l’intervento di Erdogan ha consentito al governo di al Serraj di riconquistare tutto il territorio costiero compreso tra Tripoli e il confine della Tunisia che era stato occupato dalle truppe di Haftar, tanto che il 18 maggio scorso il comando delle operazione congiunte Tripoli-Turchia ha annunciato di avere ripreso il controllo della base aerea di al-Watiya, a 27 chilometri dal confine tunisino, che era diventato il punto più avanzato dell’offensiva di Haftar nella Libia occidentale.

Secondo fonti di intelligence, questa base aerea potrebbe diventare ora la roccaforte degli aerei militari turchi in Libia, ponendo fine al rischio dei rifornimenti in volo che gli F16 di Erdogan dovevano correre per arrivare sui bersagli libici. Bersagli difesi finora da sei aerei Mirage messi a disposizione di Haftar dagli Emirati Arabi e parcheggiati nella base egiziana di Sidi el Barrani, poco distante dal confine tra Egitto e Libia. Benché si tratti di pochi velivoli, gli osservatori prevedono un’escalation del conflitto aereo, con un impiego più massiccio di droni e di elicotteri. Di fatto, uno scontro militare dove la vera posta in gioco è il controllo dei ricchi pozzi di petrolio.

Secondo il sito analisidifesa.it, le sconfitte sul campo di Haftar, 76 anni, ne stanno indebolendo anche la leadership politica in Cirenaica, ovvero proprio a casa sua. I suoi principali sponsor (Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti) cominciano a nutrire qualche dubbio sulla sua leadership e osservano con interesse un altro personaggio poco noto, Aguilah Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk, considerato vicino ai russi e ai sauditi, il quale sarebbe favorevole a un negoziato di pace con Tripoli, prospettiva che potrebbe esautorare Haftar.

Da qui, la sua immediata reazione: il 27 aprile, cogliendo tutti di sorpresa, ha annunciato una sorta di golpe in Cirenaica, attribuendosi pieni poteri per governare l’intera Libia, anche se in realtà la sua influenza non va al di là dei territori occupati. Al suo fianco, Haftar ha costituito il Consiglio di sovranità libico, in pratica un nuovo esecutivo composto solo da militari, volto a esautorare il governo in carica e il parlamento di Tobruk. Resta però da capire fino a che punto Haftar sarà sostenuto dalla Russia di Vladimir Putin, che ha inviato in Libia 800 contractors della fedele agenzia privata Wagner e circa un migliaio di mercenari arruolati in Siria, ma non sembra avere molto interesse a scontrarsi con la Turchia di Erdogan sul piano militare.

Gli Stati Uniti, dove Donald Trump si era schierato a favore di Haftar, ora stanno a guardare. L’inviato speciale di Washington, Jim Jeffreys, ha segnalato un certo fastidio americano per l’ingerenza russa. Di conseguenza, la Nato non ha aperto bocca quando a Tripoli sono sbarcati i mercenari siriani di Ankara. Anzi, Jens Stoltenberg, segretario della Nato, ha ribadito che quello di al Serraj è l’unico governo legittimo della Libia e che «non c’è soluzione militare per la crisi libica, in quanto è necessario attenersi alle conclusioni della conferenza di Berlino». Un riferimento all’Europa, che appare più formale che di sostanza.

A Berlino, infatti, il 19 gennaio l’Unione europea ha deciso l’invio della missione navale Irini, a comando italiano, per contrastare le forniture di armi ai due schieramenti libici. Scelta che non è stata accolta bene da al Serraj, il quale in una intervista al Corriere della sera ha lamentato che la missione europea si limita a sorvegliare il mare Mediterraneo, “mentre ai nostri nemici armi e munizioni arrivano via terra e aria. Per questo i nostri porti saranno controllati, le nostre truppe penalizzate, mentre gli scali di Haftar saranno liberi di ricevere ogni aiuto e rinforzo militare”. Non solo: la Turchia considera illegittima la missione Irini, il che ha rallentato non poco il suo avvio operativo. Un ritardo causato anche dal fatto che i paesi del Nord Europa, specie quelli con molti immigrati turchi, non hanno alcuna intenzione di scontrarsi con Erdogan. Insomma, un’Europa divisa e di scarso peso, come al solito. Idem l’Italia.

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