A 85 anni belli che compiuti, per quanto molto ben portati e quindi non ostativi a qualche nuovo incarico, Giuliano Amato ha avuto facile gioco a tirarsi fuori dalla gara alla quale altri lo hanno iscritto per la guida di un nuovo, pur improbabile governo tecnico, dopo quelli di Lamberto Dini, di Mario Monti e di Mario Draghi succedutisi durante la cosiddetta seconda Repubblica. Che pure era nata nel 1994 con la vittoria elettorale di un Silvio Berlusconi spinto a Palazzo Chigi direttamente da chi ne aveva votato la candidatura nelle urne, ma nominato un po’ controvoglia dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Ciò contribuì non poco a far cadere il nuovo presidente del Consiglio in circa nove mesi ad opera di un ancora imprevedibile alleato come Umberto Bossi. Il quale raccontò poi personalmente delle feste, o quasi, che Scalfaro gli faceva al Quirinale quando egli cominciò a manifestare insofferenza e voglia di crisi, trattenuto solo dal timore di elezioni anticipate di cui il capo dello Stato lo liberò promettendogli di non ricorrervi se Berlusconi fosse stato costretto alle dimissioni. E in effetti a succedere al Cavaliere fu chiamato come tecnico il ministro del Tesoro Dini, durato ben più dei quattro o cinque mesi che Berlusconi si aspettava dicendo che tanti gli erano stati promessi al Quirinale. Dini durò più di un anno, sino a quando si andò alle elezioni anticipate nelle condizioni in cui la sinistra riteneva di essersi attrezzata candidando con successo Romano Prodi.
AMATO NON VUOLE TORNARE A PALAZZO CHIGI
Ma torniamo a Giuliano Amato e alla sua scarsa o nessuna voglia di tornare come tecnico a Palazzo Chigi dopo esservi già andato come politico nel 1992 e nel 2000. Ipotizzarlo “non so se sia più penoso o più comico” alla sua età pur “in un Paese di anziani”, ha detto Amato rispondendo all’ultima domanda di un’altra intervista fattagli da Repubblica: meno clamorosa di quella sulla strage aerea di Ustica del 1980 ma politicamente più pregnante e attuale, non a caso titolata sul tema scottantissimo dell’immigrazione così malamente affrontato e gestito un po’ da tutti in Europa. Dove Amato non si dà pace che “oggi si accolga”, almeno sulla carta, “chi è perseguitato da un regime e si respinga chi è perseguitato dalla fame”. “Questo – ha detto – è inammissibile sul piano dei diritti umani. L’Europa deve riconoscere lo status di rifugiato economico”.
La premier Meloni, proiettatasi un po’ troppo in avanti col suo cosiddetto “piano Mattei” per combattere la miseria in Africa, non avrà molto gradito. Ma a me il ragionamento dell’ex presidente del Consiglio e ora presidente emerito della Corte Costituzionale sembra a dir poco ragionevole, anzi dovuto sul piano morale, anche se Maurizio Belpietro ha titolato sulla sua Verità contro “l’invasione dei rifugiati economici” e accusato Amato di volerci “impoverire” già dal lontano 1992, quando il suo primo governo prelevò nottetempo il 6 per mille dai conti correnti bancari degli italiani.
LE PAROLE SU NAPOLITANO
Poiché col passare degli anni mi sembra che egli abbia preso il gusto di spiazzare l’interlocutore di turno, nella sua nuova intervista a Repubblica Amato ha voluto in qualche modo tornare al discorso celebrativo su Giorgio Napolitano, nel giorno dei funerali di Stato a Montecitorio, per aggiungere ciò che non aveva detto, non so se per ragioni di tempo o di opportunità, dopo che un figlio in persona dello stesso Napolitano ne aveva riconosciuto “cause sbagliate” e non solo giuste. Cause sbagliate -avevano tutti opportunamente pensato- come quella del 1956 per la repressione sovietica della rivoluzione ungherese, quando il segretario del Pci Palmiro Togliatti si compiaceva sorseggiando vino rosso e l’Unità usciva su tutta la prima pagina con questo titolo raccapricciante: “Le bande controrivoluzionarie vengono costrette alla resa dopo i loro sanguinosi attacchi contro il potere socialista”.
Ebbene, pur iscrittosi al Psi piuttosto che al Pci proprio dopo i fatti d’Ungheria, un sorprendente Amato ha voluto chiedersi “quasi settant’anni dopo” se, rimanendo nel partito comunista senza dissentire uomini come Giorgio Napolitano, “ebbero davvero torto coloro che pensarono che far disperdere quel patrimonio umano sarebbe stato un errore”. “Io escludo -ha aggiunto o spiegato Amato, come per giustificare il compianto presidente emerito della Repubblica- che Giorgio fosse personalmente sensibile al mito di Mosca, che aveva anche aspetti grotteschi, ma è un fatto che fosse una componente identitaria a lungo essenziale per preservare l’unità” del Pci, preferita in effetti anche da Giorgio Amendola ad ogni altra esigenza o evenienza.
“Oggi ripenso – ha insistito Amato – alla scelta difficile di chi rimase come Giorgio (Napolitano). Io resto ma farò tutto quello di cui sono capace -ha detto come ventriloquo dell’amico in quell’orribile 1956- per radicare il mio partito nel sistema democratico italiano. Un’impresa ardua e coraggiosa”. Che Amato ritiene evidentemente svolta a dovere da Napolitano, senza il quale in effetti il Pci difficilmente avrebbe rinunciato a vedere l’Europa solo come il continente dei monopoli e del capitalismo. E quindi ad opporvisi.
Ma le sorprese del bis di Amato a Repubblica non finiscono qui. Si spingono sino a sottrarsi da parte dell’intervistato al tentativo di strappargli una critica ad una destra, secondo l’intervistatrice Simonetta Fiori, anche visivamente fredda, se non ostile a Napolitano morto. “Questa delle due Italie – ha detto Amato – è un’immagine ricorrente nelle cronache dei funerali. Posso solo prenderne atto, non avendo potuto scorgere i volti di chi ascoltava. E comunque bisogna apprezzare che quasi tutto il governo abbia presenziato. Certo è che queste due Italie devono dialogare tra di loro”. Volenti o nolenti, specie nel luogo etimologicamente preposto al dialogo che è il Parlamento. Come dargli torto?