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Europa Germania

Vi racconto i 20 anni (utili?) di dominio della Germania in Europa

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

“Dormito bene, mio caro?”: così che verrebbe da esclamare, con più di una punta di ironia, leggendo il documento presentato da Peter Altmaier, Ministro tedesco per l’Industria e l’Energia, dal titolo “Strategia industriale nazionale 2030”. Si concentra tutto sulla analisi della situazione competitiva mondiale, in cui la Germania subisce una sorta di attacco concentrico da parte di Cina ed Usa sul piano della innovazione tecnologica, con la erosione dei vantaggi competitivi nei settori tradizionali, illustrando ciò che occorre fare per mantenere le posizione di forza. Senza mai, però, un solo accenno a ciò che si è fatto, e soprattutto a ciò che non si è fatto in questi ultimi vent’anni. Perché tanti ne sono trascorsi dalla approvazione della Strategia di Lisbona nel marzo del 2000. Furono parole roboanti: “L’Unione europea si trova dinanzi a una svolta epocale risultante dalla globalizzazione e dalle sfide presentate da una nuova economia basata sulla conoscenza. Questi cambiamenti interessano ogni aspetto della vita delle persone e richiedono una trasformazione radicale dell’economia europea”. Ed ancora: “…Il ritmo rapido e sempre crescente dei mutamenti rende urgente un’azione immediata da parte dell’Unione per sfruttare appieno i vantaggi derivanti dalle opportunità che si presentano. Ne consegue la necessità per l’Unione di stabilire un obiettivo strategico chiaro e di concordare un programma ambizioso al fine di creare le infrastrutture del sapere, promuovere l’innovazione e le riforme economiche, e modernizzare i sistemi di previdenza sociale e d’istruzione”. Questo era “l’obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Mai parole furono più vane.

Ecco perché, prima di analizzare il documento sulla strategia industriale tedesca al 2030, è bene tirare giù un po’ di numeri; per capire come sono andate le cose in Germania, il Paese europeo che in questi anni l’ha fatta da padrona.

Se, a voler essere teneri, in Europa non solo non si è fatto nulla di costruttivo rispetto a quanto si era proclamato a Lisbona, in Germania si è fatto l’esatto contrario: è rimasta inchiodata al modello industriale tradizionale, centrato sull’automotive ed impelagato sulle questioni delle emissioni di gas di scarico dei motori diesel. Ha speso i primi dieci anni del nuovo secolo ad applicare un modello di precarizzazione del lavoro (mini-job) e di deflazione salariale, che poi, dopo la crisi del 2010, è stato imposto dalla Unione europea a tutti i Paesi per migliorare la competitività. Il ragionamento era semplice: se ai lavoratori tedeschi è stato chiesto un sacrificio pesante, con le retribuzioni falcidiate nonostante la crescita economica ed i guadagni di produttività avocati al profitto, anche gli altri paesi dovevano fare altrettanto.

In Germania ci sono state ben quattro successive “riforme Hartz”, varate sulle proposte formulate dalla Commissione “Servizi moderni al mercato del lavoro” istituita nel 2002. I risultati complessivi, dal punto di vista del minor costo del lavoro, sono stati consistenti: se nel 1981, all’atto della Riunificazione, la remunerazione complessiva del lavoro era pari al 62,11% del valore aggiunto, questa percentuale è scesa negli anni di ben dieci punti: nel 2007 era arrivata al 52,94%. Dopo gli effetti negativi della crisi americana, e nonostante la successiva crescita economica sostenuta da entusiasmanti attivi commerciali sull’estero, nel 2017 questa percentuale è salita solo al 56,33%. Anche nel settore dell’industria, quello della cosiddetta aristocrazia operaia, il ridimensionamento delle retribuzioni è stato sostanziale: la loro percentuale sul valore aggiunto è scesa dal 24,9% del 1991 al 17,7% del 2017. Nei servizi, non ha compensato questa caduta, essendo passata nel medesimo periodo dal 34% al 38,5%.

È impietoso il confronto con la percentuale delle remunerazioni complessive italiane, che ha toccato il picco nel 1975, con il 50,7%. Livello sceso in continuazione fino al 2000, quando toccò il 41,2% del valore aggiunto, per risalire appena al 44,2% nel 2017.

In Germania, il maggior risultato lordo di gestione non è andato ad incrementare gli investimenti fissi lordi, che infatti sono passati dal 23% del pil nel 2000 al 20,3% nel 2017. C’è di che mettersi a piangere, a leggere le cifre degli investimenti fissi lordi della PA tedesca: nel 2017 sono stati inferiori a quelli della poverissima e bistrattatissima Grecia: 2,24% del pil rispetto al 4,5%. Peggio della Germania hanno fatto solo l’Italia con l’1,96%, la Spagna con l’1,97% ed il Portogallo con l’1,63%. Una ragione sola ragione ci può essere, per giustificare questi risparmi tedeschi, fino all’osso: il terrore che una prossima crisi faccia saltare per aria, irrimediabilmente, il suo sistema bancario.

I maggiori profitti tedeschi di questi anni sono stati tesaurizzati, impiegandoli in investimenti di portafoglio ad alto rischio all’estero: dai mutui sub-prime americani ai prestiti alla Grecia ed alle banche spagnole. Fallimenti su fallimenti, perdite su perdite difficili da tamponare, che hanno assorbito tutta l’energia politica della Germania.

Vero è che, per via degli attivi commerciali strutturali, la posizione finanziaria netta sull’estero della Germania è migliorata vistosamente, con l’attivo totale netto salito a 1.771 miliardi di euro a fine 2017 , rispetto ai 1.602 miliardi del 2016. La sottoscrizione da parte di investitori stranieri di titoli di debito a lungo termine emessi da banche ed altre istituzioni finanziarie tedesche è rimasta sempre elevata, con 1.070 miliardi di euro nel 2016 saliti a 1.111 nel 2017. A ben vedere, però, il fatto stesso di essere considerato un porto sicuro di fronte alle turbolenze nell’Eurozona, con una quota rilevante del suo debito pubblico detenuta da investitori stranieri nonostante i tassi di interesse negativi (1.091 miliardi di euro a fine 2016 ridotti a 982 miliardi a fine 2017), ha correlativamente esposto il risparmio interno tedesco a rischi esteri elevati.

Per quanto riguarda gli asset proprietari all’estero, la situazione della Germania non è così rosea come si potrebbe immaginare: nel 2017, il saldo relativo agli investimenti diretti è aumentato di una inezia, appena 6 miliardi di euro. Insomma, le acquisizioni recenti sono state pari a zero.

Per essere chiari: la Germania si è resa improvvisamente conto che il contesto competitivo globale è cambiato. La continua riduzione della quota dei salari interni non basta ad assicurare la competitività del suo sistema tradizionale industriale, già nel breve termine; e neppure è sufficiente avvalersi di un circuito di Paesi subfornitori a basso costo. Meno ancora è affidabile una segregazione della ricchezza accumulata attraverso impieghi di portafoglio all’estero.

Il documento di Altamier, appena 21 pagine, è una sorta di Manifesto: si riparte dalla impostazione di Ludwig Erhard, il padre politico della economia sociale di mercato. Lo Stato non deve sostituirsi alle forze del mercato, alle scelte dei consumatori o delle imprese, ma deve solo assicurare che le loro scelte avvengano in un contesto di libertà. La funzione dello Stato è quella di creare le condizioni ottimali per la crescita economica in condizioni di concorrenza, contrastando i condizionamenti negativi che derivano dalla presenza dei monopoli, dal protezionismo nei mercati ed ora anche dal percolo di spoliazione del patrimonio tecnologico tedesco attraverso acquisizioni ostili da parte cinese.

Non è stato compreso per tempo, né dalle industrie tedesche né da quelle degli altri Paesi europei, che il processo di informatizzazione, iniziato negli anno Ottanta negli uffici attraverso la sostituzione degli archivi cartacei e del computo meccanico attraverso gli elaboratori, si sarebbe poi esteso al mondo della produzione, con le macchine a controllo numerico e con i sistemi di business intelligence, ed infine alla generalità delle azioni umane. La diffusione inarrestabile dei personal computer, poi dei tablet, ed infine degli smartphone, oggi appannaggio dei costruttori cinesi e coreani, riproduce quella degli apparecchi radio e televisivi che fu padroneggiata dal Giappone negli anni Settanta. I tedeschi sono rimasti fermi alle auto.

In tutto questo, l’Europa è scomparsa: la storia industriale di questi ultimi venti anni si riassume nella profittevole delocalizzazione, innanzitutto verso i Paesi dell’ex-Cortina di ferro, delle produzioni tradizionali.

È ragionevole, dunque, ipotizzare la creazione di un Fondo sovrano tedesco, che acquisisca le partecipazioni in aziende strategiche per evitare che cadano preda cinese, rapacemente spogliate delle loro preziose competenze. È opportuno che lo Stato tedesco si faccia temporaneamente promotore di iniziative di sviluppo tecnologico a lungo termine. E’ necessario costituire complessi industriali che abbiano la stazza per competere con i colossi cinesi e statunitensi: il divieto posto alla fusione tra Alstom e Siemens nel settore ferroviario, appena deciso dall’Antitrust europeo, sarebbe davvero un controsenso, se si guarda alla dimensione del concorrente cinese.

In realtà, si persegue la corsa al gigantismo, per entrare in un mercato oligopolistico che mutila la concorrenza: quella libertà di mercato che si proclama di voler tutelare. Per competere, servono campioni europei; con la Germania in prima fila, già pronta a dominare il vecchio Continente: qui sta il nodo, la contraddizione insolubile. Altmaier fa finta di non capire.

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