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Vi racconto i pregiudizi anti Lega della sinistra

L'articolo di Paola Sacchi, già inviata di politica a L'Unità e a Panorama

 

Il pregiudizio anti-leghista, da Bossi a Salvini, è una costante della sinistra. Se una volta c’era l’anti-berlusconismo, rimasto sempre comunque di sottofondo, sempre pronto a rialzare la testa, ora c’è l’anti-salvinismo o comunque l’ anti-leghismo di sempre, amplificato dal fatto che il Carroccio è diventato il primo partito.

Comunque finirà la crisi, il dibattito e le manovre hanno fatto venire allo scoperto il tabù che da sempre alberga nella sinistra e nel centrosinistra. Salvo utilizzare Bossi, rivalutandolo, a suo tempo, pur di battere Berlusconi. Ha ragione Pierluigi Battista, firma del Corriere della sera, che in sostanza individua, in un’intervista di ieri a La Verità di Maurizio Belpietro, nel fronte tra coloro (5s e Pd) che fino a pochi giorni fa si consideravano reciprocamente il diavolo e l’acqua santa una sorta di conventio ad excludendum pur di non far vincere Salvini. Ora ci possono essere mille motivi per non esser d’accordo con la Lega di ieri e di oggi.

Ma dal “Barbaro di Gemonio” al “Barbaro” del 34 per cento, il film che si ripete a sinistra sembra sempre lo stesso. La Lega ha nel suo Dna un linguaggio forte, diretto, rude. Che però, comunque uno la pensi, centra il problema che intende sollevare.

A portare in politica il linguaggio dell’uomo del bar fu proprio Bossi, che conio’ termini come “la quadra”, oggi usati da tutti. Ne usò di molto più forti e meno innocui, ma mi rivelò un po’ a sorpresa, una volta, a margine di una delle prime interviste (per Panorama) dopo la malattia del 2004: “Io in realtà lanciai la secessione per ottenere la Devoluzione”.

Quella riforma che già prevedeva, seppur in maniera più blanda dell’attuale, la riduzione del numero dei parlamentari, poi bocciata al referendum, e che però non venne demonizzata neppure da governatori di centrosinistra di allora come l’imprenditore Riccardo Illy. Salvini ha finora puntato tutto sulla necessità di contenere l’immigrazione. Con metodi e parole d’ordine opinabili. Ma che ci fosse il problema del “non possiamo accoglierli tutti” lo ha anche recentemente ribadito il suo predecessore al ministero dell’Interno, il pd, ex Pci-Pds-Ds, Marco Minniti.

A Salvini si può rimproverare soprattutto di non essersi mosso con una strategia di respiro sullo scacchiere europeo. Ma la stessa Angela Merkel mesi fa dovette riconoscere che l’Italia per troppo tempo è stata lasciata sola. E l’ex premier socialista spagnolo Luis Rodriguez Zapatero, allora tanto omaggiato dalla nostra sinistra, usò a suo tempo il pugno di ferro nella difesa dei confini nazionali spagnoli.

La Lega da sempre fa un gran parlare di “galera”, il cappio agitato in aula a Montecitorio da Luca Leoni Orsenigo resta purtroppo un brutto ricordo, anche se pochi sanno che subito dopo Bossi fece una gran lavata di capo, delle sue, allo stesso Orsenigo. Chi era al gruppo alla Camera della Lega Nord ricorda ancora la voce rauca e allora molto sonora del Senatùr. Che anni fa in un’intervista sempre per Panorama ammise: “Craxi era uno statista, hanno scaricato tutto addosso a lui”.

Insomma, il capro espiatorio, riconobbe il fondatore della Lega Nord e presidente a vita della Lega. Salvini ha votato la legge dei 5s detta “spazzacorrotti”. Che difficilmente può esser definita garantista. Ma proprio e anche sulla giustizia si è consumato lo strappo con i grillini. Che sono i veri campioni del giustizialismo. Salvini ha parlato anche di separazione delle carriere, che resta il vero nodo irrisolto. Una svolta certo inficiata dal precedente voto a favore della “spazzacorrotti”.

Ma comunque un segnale di certa, non indifferente, diversità con i 5s. Grazie a un’unità raggiunta tra Lega, Pd e Forza Italia è stata impedita, per ora, la chiusura di Radio Radicale. E sulla Tav la Lega di Salvini si è espressa a favore come Pd e Forza Italia. La Lega è da sempre partito per lo sviluppo economico, per l’abbassamento delle tasse. Bossi la definì: “Una forza liberale in economia”. Purtroppo però, come ha sempre osservato Berlusconi, ha delegato proprio l’economia al pauperismo pentastellato. E i nodi sono venuti al pettine con quello che Salvini ha definito il partito “dei no”.

Proprio Berlusconi intuendo che quella fosse “una forza di popolo”, come chiamava Bossi la sua Lega Nord, fatta di artigiani, commercianti, partite Iva, portò “il Barbaro di Gemonio” al governo, contribuendo così ad impedire derive secessioniste, cosa alla quale, sembra paradossale, lo stesso Bossi innanzitutto contribuì.

La Lega è stata sempre snobbata, se non disprezzata, in una certa cultura dominante di quel Palazzo che il Senatùr definì “la palude romana”, dove però lui scese dal Nord per tradurre in politica le sue richieste. Eppure, intanto, si affermava nel Carroccio una vera e propria classe dirigente di amministratori sul territorio, di cui uno dei maggiori esempi è il governatore del Veneto, Luca Zaia, finora il più votato d’Italia, con percentuali secondo le quali è un po’ difficile pensare, stando alla matematica, che lo abbiano scelto solo gli elettori leghisti e di centrodestra.

Della Lega fu a Varese, prima di Matteo Renzi a Firenze, il più giovane presidente di Provincia d’Italia: l’ex capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, ingegnere. Come ingegnere è il suo successore a Varese, Dario Galli, ora viceministro di Di Maio, al Ministero dello Sviluppo economico, e sindaco di Tradate. Roberto Maroni, avvocato, con Bossi nella Lega delle origini, è stato governatore della Lombardia e due volte ministro dell’Interno stimato anche dagli avversari politici.

Nei gruppi parlamentari leghisti il numero dei “barbari” laureati non è stato, soprattutto negli ultimi 10 anni, mai esiguo. Spicca il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giorgetti, il numero due di Via Bellerio, bocconiano, che Napolitano volle tra i “saggi” per le riforme. E bocconiano è anche il viceministro all’Economia, Massimo Garavaglia.

Ora l’obiezione che gli avversari della Lega potrebbero fare, e che anzi hanno già fatto, è che “l’uomo nero” sarebbe Salvini, colui che ha portato la piccola Lega ad esser il primo partito italiano. Ma Salvini, piaccia o no, in quel partito è cresciuto ed è stato eletto segretario federale, a larghissima maggioranza, con le primarie. Cosa che nei 5s non c’è, così come il meccanismo di selezione della classe dirigente. Si rimprovera legittimamente a Salvini certa fragilità sulla politica estera, certo antieuropeismo (lui comunque ha sempre detto che l’Europa va riformata) e quello che probabilmente è stato un errore: cioè essersi isolato con la Le Pen, mentre Orban è rimasto nel Ppe, come acutamente ha notato l’ex stretto collaboratore di Gianni De Michelis, il socialista craxiano, ex assessore regionale del Lazio Donato Robilotta.

Ma fare una coalizione ad excludendum contro Salvini, cosa che Robilotta non ipotizza, tra il Pd e chi andava in Francia ad incontrare i gilet gialli e chiese addirittura l’impeachment per il capo dello Stato, per poi subito dopo scusarsi, mentre Salvini ha sempre usato parole rispettose con Sergio Mattarella, fare un fronte comune con chi predica la decrescita felice, e voleva la chiusura di Radio radicale, è davvero cosa che aiuta la nostra democrazia, l’europeismo e la riforma della Ue? Oppure non rischia proprio nell’elettorato di alimentare sentimenti di frustrazione e rabbia? Berlusconi proprio con la sua politica inclusiva le pulsioni secessioniste del Nord, che in quel caso però voleva andare in Europa, contribuì ad arginarle.

Quanto ora potrebbe costare all’Italia l’anti-salvinismo e comunque l’anti-leghismo di sempre? Ora che in Veneto sono scesi in campo anche grandi imprenditori, di peso sul piano nazionale, come Zoppas e Riello, per chiedere che si vada alle urne.

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