skip to Main Content

Giorgetti

Vi racconto gli abbagli americani su Mani Pulite

I Graffi di Damato

 

Attratto dal titolo sulle “origini e aporie”, cioè contraddizioni, della cosiddetta seconda Repubblica, tali da indurre a dubitare che essa sia veramente esistita in Italia, per quanto molti parlino e scrivano anche di una terza Repubblica già trascorsa o di una quarta incipiente, un libro appena uscito per Rubbettino a cura di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e Andrea Spiri, tre storici e docenti universitari coi fiocchi, mi ha fatto sobbalzare. Vi ho trovato la conferma, stavolta documentata a dovere, della disinformazione e approssimazione della diplomazia americana alle prese in Italia agli inizi degli anni Novanta con l’esplosione di Tangentopoli.

Il merito dell’approccio documentatamente approssimativo della diplomazia americana operante in Italia, attivissima nel mandare rapporti e quant’altro a Washington, si deve in particolare ad Andrea Spiri. Che ha potuto consultare tantissimi documenti non del tutto desecretati, a dire la verità, perché egli ha trovato alcuni omissis che impediscono, per esempio, di fare bene i nomi e i cognomi dei magistrati milanesi contattati dagli americani per ottenere anticipazioni, confidenze, previsioni e quant’altro e informarne i superiori, a cominciare da quelli dell’ambasciata a Roma. Dove via via – a dispetto di una iniziale prudenza, causata anche da un invito al sostituto procuratore Antonio Di Pietro negli Stati Uniti reso noto benché ancora riservato – si lasciarono prendere la mano scaricando duramente un leader politico come Bettino Craxi. Cui pure gli Stati Uniti dovevano moltissimo nella vittoria della guerra fredda contro l’Urss, nonostante lo scontro diretto per telefono, e interposto interprete, tra lo stesso Craxi e il presidente Ronald Reagan nella famosa notte di Sigonella del 1985. Durante la quale i reparti speciali degli Usa cercarono di sostituirsi alle forze armate italiane per consegnare alla giustizia americana, sottraendoli a quella italiana, i responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo. Dove i terroristi palestinesi avevano ucciso e buttato a mare un paralitico di nazionalità americana e religione ebraica, ma prima ancora sequestrato passeggeri ed equipaggio di una nave battente la nostra bandiera.

Se Craxi prima da partecipe decisivo della maggioranza di governo e poi da presidente del Consiglio non avesse reso operativo in Italia il potenziamento delle difese missilistiche della Nato, neutralizzando così il vantaggio conseguito dai sovietici schierando oltre cortina i loro SS 20 contro le capitali europee, la partita con l’Urss non si sarebbe certamente chiusa nei tempi e modi passati alla storia a favore dell’Occidente. Eppure Craxi apparve subito ai diplomatici americani, fra Milano e Roma, un uomo degno di ogni sospetto, e forse anche di quel linciaggio d’aprile del 1993 a poche centinaia di metri da Montecitorio. Dove la sera prima i deputati avevano osato contestare a scrutinio segreto almeno alcune delle accuse di corruzione e altro formulate contro l’ex presidente del Consiglio dalle Procure che ormai si inseguivano nel dargli la caccia.

Solo dopo il suicidio in carcere, a Milano, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari ma soprattutto l’offensiva aperta nel 1994 dalla Procura milanese contro il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, imprevisto beneficiario elettorale del terremoto giudiziario di “Mani pulite”, si cessò di pensare all’ambasciata americana che “i magistrati – si legge in un documento scovato da Spiri – seguono solo la via giudiziaria, i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole….Hanno intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente…..ma come giudici la loro responsabilità è di assicurarsi che giustizia sia fatta, non tracciare linee politiche per stabilire quando se ne ha abbastanza” perché “questo è un lavoro che spetta ad altri”.

Solo l’8 dicembre 1994, festa della Immacolata Concezione, impressionato dal trattamento riservato anche a Berlusconi, l’ambasciatore americano a Roma Reginald Bartholomew si decise a riconoscere e a scrivere: “In passato non siamo riusciti a raccogliere sufficienti elementi di prova che confermassero l’accusa rivolta ai giudici di agire per fini politici”. Ma ora – riferì l’ambasciatore al Dipartimento di Stato americano- si capisce bene “la preoccupazione crescente fra i cittadini che l’operato dei magistrati possa rispondere a scopi di natura politica”, nonostante “uno status di quasi sanità che li ha sottratti alla possibilità di critica da parte della classe politica”. “Ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si stabilisca un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato e che i rappresentanti eletti riacquistino più forza” concluse l’ambasciatore.

Bartholomew morì a New York nel 2012, a 76 anni, senza avere neppure potuto intravvedere quel “nuovo equilibrio” in Italia che d’altronde stiamo ancora tutti aspettando. E per il quale si dovrà forse tornare a scommettere più che sui partiti ridotti come sono, sulla democrazia diretta referendaria. Che potrebbe finalmente sollevare anche le toghe dal discredito in cui sono finite pure loro, come ha appena rilevato con i suoi modi lo stesso presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura nel ventinovesimo anniversario della strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.

Back To Top