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Filosofie e amnesie di BHL

Il corsivo di Teo Dalavecuras su Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy è l’eroe eponimo dei “Nouveaux philosophes”; lo è non solo per la notorietà che lo accompagna nel ruolo da molti anni, ma anche per aver battezzato “nuovi filosofi” nel 1976 il gruppo di intellettuali francesi antimarxista “da sinistra”, nell’atmosfera non ancora svanita del Maggio francese, capostipite a propria volta dei diversi “Sessantotto” europei, un sommovimento ideologico e sociale importato dagli Stati Uniti d’America (dettaglio da non trascurare). Oggi la collocazione a sinistra del gruppo (ma soprattutto di Lévy o, come pure ama farsi chiamare, “BHL”) è largamente contestabile, ma questo aspetto non mi appassiona, e me ne scuso con chi séguita a dare importanza a questo tipo di distinzioni.

Da molto tempo Lévy trascura la riflessione filosofica a vantaggio di un assai meglio remunerato ruolo di “maître à penser” (nel mondo cattolico di una volta “direttore di coscienza”) dispensando su importanti media del mondo occidentale ricette di pronto consumo, a beneficio di un pubblico in senso lato progressista, su che cosa pensare, e soprattutto dire, dei principali problemi del momento. In Italia, dopo avere riservato per anni il suo magistero ai lettori del Corriere della Sera, si è imbarcato sulla ammiraglia della agguerrita flotta mediatica del Gruppo Gedi-Elkan, la Repubblica.

Non posso annoverarmi tra i seguaci più entusiasti del verbo di Lévy, ma il titolo di un suo corsivo di qualche giorno fa nella pagina dei commenti del quotidiano romano (“La nuova barbarie digitale”) mi ha incuriosito, anche perché ignoravo che Lévy si fosse trasferito, armi e bagagli, dalle pagine del Corriere a quelle di Repubblica, scelta cui forse – senza sottovalutare le motivazioni ideali – non è totalmente estranea la ben nota parsimonia dell’editore Urbano Cairo.

Dopo un inizio lapidario (“Il presidente della Repubblica Macron ha ragione. Esiste sul serio un imbarbarimento collettivo ascrivibile al successo dei social network”) Lévy si sofferma sui cinque motivi (da buon filosofo “sistematizza”) dell’imbarbarimento, che poi sono la natura irriflessa dei giudizi affidati ai social, la natura effettivamente asociale di questi, la dislocazione della memoria individuale dalla testa degli umani a quella dello smartphone, la trasformazione della comunicazione pubblica in un “parlottio globale” dove è impossibile distinguere tra intelligenza e delirio e infine nel controllo di tutti nei confronti di tutti reso possibile, dice Lévy, dall’affermarsi dei social network.

A parte l’ultimo, gli altri motivi indicati da Lévy sfondano porte già spalancate, anche se l’elenco è impreziosito dall’evocazione di Platone, Hobbes e Hegel. Il pregio del corsivo, però, si fonda non su quel che Lévy dice ma su quel che riesce a tacere. A parte il fatto che la denuncia di Lévy, a quattordici anni dal lancio del primo smartphone di Steve Jobs è leggermente tardiva, a leggere il suo articolo si ha l’impressione che l’affermarsi dei social network sia una sorta di fenomeno naturale, un cambiamento climatico o magari un bradisismo, o ancora un caso di malcostume generalizzato: qualsiasi cosa ma non l’affare di alcuni signori che hanno letteralmente saccheggiato in tutti questi anni, tra gli applausi, le vite private di miliardi di consumatori in tutto il mondo costruendo roccaforti che si chiamano Microsoft, Apple, Facebook, Google, Amazon eccetera eccetera: invano si cercherebbe il nome di uno solo di questi “robber barons” digitali che hanno frugato, e seguitano a frugare, la vita quotidiana di chiunque accumulando fortune che corrispondono a numeri impronunciabili come mille miliardi, duemila miliardi (e pensare che ai dilettanti della Stasi hanno dedicato anche un film di successo…).

Bisogna ammettere che riempire due colonne di testo sul tema “social network e barbarie” senza scrivere nemmeno per sbaglio il nome di Bill Gates, di Steve Jobs, di Mark Zuckerberg, di Jeff Bezos o delle loro imprese, fa onore al grande mestiere di BHL.

Ma c’è di più o, a seconda del punto di vista, di meglio. Il “motivo numero cinque” dell’imbarbarimento via social network è il seguente. A differenza del Panopticon di Bentham, l’avvento dei social ha prodotto una situazione in cui tutti, “carcerieri” e “carcerati”, si scrutano ininterrottamente senza distinzione di ruoli.

Si credeva di aver capito che la trasformazione dei social in migliaia di miliardi (euro o dollari, fate voi) dipendesse dal fatto che i padroni delle “piattaforme” si appropriano di tutte le informazioni generate dall’interazione tra chi li frequenta e ne ricavano, elaborandoli in vario modo, altre informazioni vendibili o diversamente sfruttabili con grande profitto. Invece BHL ci lascia intendere che ci si trova, banalmente, immersi in uno sconfinato casino dove non si capisce più chi è il controllato e chi il controllore. Da un certo punto di vista, una conclusione consolante: si vorrebbe poterci credere.

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