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Russia Turchia

Vi racconto cosa fanno Turchia e Russia in Libia

L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

Petrolio, migranti, opere pubbliche. Da decenni, sono questi i temi in cima all’agenda delle relazioni tra Italia e Libia. E Mario Draghi, conoscendone l’importanza, non a caso ha deciso di compiere in Libia il suo primo viaggio all’estero nella veste di premier. Era il 6 aprile, e dopo l’incontro con il premier libico, Abdul Hamid Dbeibah, si dichiarò molto soddisfatto per la collaborazione in campo progettuale su questi temi, aggiungendo: «C’è la volontà di riportare l’interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6 anni fa». Proposito ribadito dal premier libico quando, il 31 maggio, si è rivisto a Roma con Draghi, accompagnato da ben sette ministri, con i quali partecipò a un forum organizzato dalla Farnesina sul partenariato industriale e la ricostruzione della Libia, a cui erano presenti i rappresentanti di trenta gruppi industriali italiani.

Erano giorni di ottimismo. Il governo di Dbeibah, ricco industriale di Misurata, era stato insediato da un mese sotto l’egida dell’Onu, dopo lunghi negoziati promossi da Angela Merkel a Berlino. L’obiettivo, costituire un governo unitario, fu raggiunto e sancì la fine delle ostilità tra le due parti libiche che si erano fatte la guerra: la Cirenaica del generale Khalifa Haftar a est, la Tripolitania di Fayez al Sarraj a ovest. In base agli accordi di Berlino, il governo Dbeibah è nato come provvisorio, con il compito di avviare la ricostruzione e condurre la Libia alle elezioni, fissate per il 24 dicembre. Ma quella che, in aprile e maggio, sembrava una strada in discesa, ben presto si è rivelata un sentiero pieno di ostacoli, locali e internazionali. Con colpi di scena a ripetizione.

L’ultimo è andato in scena l’altro mercoledì, quando il parlamento di Tobruk (città della Cirenaica) ha sfiduciato il governo di unità nazionale di Dbeibah con 89 voti a favore su 113 presenti in aula. Il tutto in una sessione a porte chiuse, dove il presidente del parlamento, Aguila Saleh, ex magistrato, ha condotto le danze in prima persona per sfiduciare il premier, che considera un rivale politico da mettere fuori gioco in vista delle elezioni di dicembre. Per tutta risposta, Dbeibah ha dichiarato di considerare non valido il voto di sfiducia, in quanto la costituzione provvisoria richiede due terzi dei voti del parlamento (125) per sfiduciare il governo, mentre Saleh ha ritenuto sufficiente il regolamento del parlamento, che prevede il 50% più uno dei votanti.

Le divisioni tra i due non finiscono qui. In base alle regole stabilite dal Foro di dialogo politico, costituito da 74 membri dopo gli accodi di Berlino, le autorità libiche ad interim, in testa Dbeibah e Saleh, non potrebbero candidarsi alle prossime elezioni. Un divieto che i due rivali hanno dichiarato fin dall’inizio di non voler rispettare, puntando entrambi alla presidenza della Libia e alla guida del prossimo governo. Da qui una serie di colpi bassi, soprattutto da parte di Saleh. Prima ha convinto il parlamento a non approvare la legge di bilancio proposta dal premier, riducendogli le voci di spesa. Poi, l’8 settembre, ha addirittura emanato una legge elettorale che non è stata mai votata dal Parlamento, ma scritta direttamente dai suoi uffici. Legge immediatamente contestata dal Consiglio di stato di Tripoli, una sorta di senato libico, che ritiene di propria competenza l’emanazione della legge elettorale.

In questo caos istituzionale, come era prevedibile, l’unico punto di accordo è che la legge elettorale proposta da Saleh fa carta straccia delle regole del Foro di dialogo e consente, sia a lui che al rivale Dbeibah, di candidarsi alla presidenza, con la vittoria al primo turno per chi prende il 50% più uno dei voti, in caso contrario si andrà al ballottaggio tra i primi due. In buona sostanza, uno nuovo scontro tra Cirenaica e Tripolitania, questa volta non con le armi, ma con il voto popolare. Il che, se si avverasse, sarebbe una svolta positiva non solo per la Libia, ma anche per l’Italia e per i progetti di cooperazione concordati da Draghi.

A rendere complicata questa svolta vi sono diversi fattori. Non solo il probabile rinvio delle elezioni del 24 dicembre, a causa delle profonde divisioni interne alla Libia. Ma anche le trame di potere di Russia e Turchia, che dopo avere preso parte alla guerra tra Cirenaica e Tripolitania, hanno insediato nelle due regioni i loro apparati militari, e non vogliono andarsene. Di fatto, sono loro i veri padroni sul campo: a est i mercenari russi del Gruppo Wagner, inviati da Vladimir Putin a sostegno di Haftar; a ovest i soldati turchi e siriani di Recep Tayyip Erdogan, risultati decisivi nella vittoria militare di al Sarraj, che ha sì posto fine ai combattimenti, ma non alle divisioni politiche e tribali più profonde.

La forte instabilità provocata da queste divisioni ha offerto a Emmanuel Macron l’occasione per tornare in scena, dopo che, a suo tempo, si era schierato con Haftar e contro al Sarraj, di riflesso contro l’Italia, che appoggiava il premier di Tripoli con l’avallo Onu. Il presidente francese, approfittando dell’assenza della Germania, impegnata nelle elezioni per il dopo-Merkel, ha infatti convocato per il 12 novembre una conferenza internazionale sulla Libia. Ciò è avvenuto mentre è in corso l’assemblea dell’Onu e i ministri egli Esteri di Francia, Germania e Italia si sono riuniti proprio per un esame comune della situazione in Libia. Non è chiaro se, prima dell’annuncio della conferenza internazionale, Macron ne abbia parlato con l’Italia.

Di certo, ancora una volta prova a fare il primo della classe, a spese del nostro paese. Un motivo più che sufficiente perché Roma non ceda alla richiesta francese di firmare quel Patto del Quirinale, di cui si parla tanto pur ignorandone il testo, mentre i comportamenti di Macron sulla Libia sono tutt’altro che amichevoli e trasparenti.

 

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

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