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Di Maio Salvini

Vi racconto che cosa succede tra Conte, Di Maio e Salvini sul caso Diciotti

Quali sono i veri rapporti fra Conte, Di Maio e Salvini sul caso della nave Diciotti e sul processo al leader della Lega? I Graffi di Damato

E’ proprio vero che tanto va la gatta al lardo che ci rimette lo zampino. La gatta questa volta è la furbizia dei grillini, convinti per un po’ di essere aiutati dal pur ingombrante Matteo Salvini a sottrarsi all’ennesima scelta fra le originarie posizioni di lotta e il ruolo di governo scelto dopo la parziale vittoria elettorale dell’anno scorso: quando i pentastellati raccolsero più voti di ogni altro partito, ma non di tutti presi insieme, per cui volendo sfuggire al rischio di restare all’opposizione si allearono appunto con Salvini e la sua Lega.

Fra i non pochi inconvenienti di chi governa, oltre al pericolo di deludere gli elettori, specie quando si sono fatte promesse spropositate, c’è quello di incorrere in un’azione giudiziaria. E’ accaduto appunto a Salvini, che il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, con la procedura dell’articolo 96 della Costituzione, ha chiesto al Senato di poter rinviare a giudizio per sequestro aggravato di persone e abuso di ufficio, avendo egli bloccato nella scorsa estate per alcuni giorni oltre 170 migranti sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, che li aveva soccorsi in mare. Il presunto sequestro, in qualche modo ripetuto davanti alle coste di Siracusa in questo gennaio per i migranti raccolti dalla nave Sea Watch battente bandiera olandese, era finalizzato alla distribuzione dei migranti fra più paesi, come poi avvenne.

Di fronte alla richiesta di autorizzazione della magistratura i grillini non hanno potuto sottrarsi all’obbligo di riconoscere che, se reato ci fu, non venne commesso solo da Salvini ma da tutto il governo, a nome del quale ha parlato il presidente del Consiglio in persona, Giuseppe Conte, dopo che il suo vice Luigi Di Maio si era offerto, bontà sua, a testimoniare al processo a favore del suo omologo leghista, ministro dell’Interno e imputato.

Questo comportamento dei grillini, misto di lealtà e di furbizia, ma forse più della seconda che della prima, presupponeva una tale disponibilità dell’imputato a lasciarsi processare da accettare che i suoi alleati di governo votassero al Senato per l’autorizzazione. “Se lui stesso vuole il processo, perché deluderlo o contraddirlo ?”, aveva chiesto Di Maio, sornione, in un salotto televisivo gustandosi lo scampato pericolo- secondo lui- di chiedere ai propri compagni di partito di scendere dal pero della loro ostilità di principio ad ogni forma di immunità o protezione, per quanto prevista dalla Costituzione, e di misurarsi con la realtà di un no alla magistratura per difendere le prerogative di governo da essa contestate.

Salvini a questo gioco più furbo, ripeto, che leale, si è alla fine rivoltato. E ciò un po’ per una questione di principio, per il rispetto dovuto a una prerogativa garantita dalla Costituzione a tutela della separazione dei poteri -che i leghisti impararono ad apprezzare quando passarono dall’opposizione alle esperienze di governo con Silvio Berlusconi- e un po’ per una questione pratica più che comprensibile. Che è questa: il rischio di vedersi condannato al processo e di subirne gli effetti preclusivi come ministro e politico, anche con la sola sentenza di primo grado, sufficiente a fare scattare una legge chiamata Severino, dal nome della ministra della Giustizia dell’epoca in cui fu emanata.

Deciso a questo punto ad avvalersi delle prerogative costituzionali, che gli consentono di non essere processato se il Senato gli riconosce -come d’altronde gli riconoscono pure Conte e di Maio- di essersi mosso nella vicenda della nave Diciotti nel superiore interesse pubblico, esplicitamente indicato in una leggeGazzetta.jpg costituzionale attuativa del già citato articolo 96, Salvini ha schiacciato -per tornare alla metafora iniziale- lo zampino della gatta grillina sul lardo della furbizia o, peggio ancora, del doppio gioco. E ha messo i suoi alleati di governo nei guai, in vista delle votazioni che dovranno svolgersi sulla sua vicenda prima nella giunta competente e poi nell’aula del Senato, peraltro in un arco di novanta giorni che coincide con un bel po’ di campagne elettorali per il rinnovo di Consigli regionali e del Parlamento Europeo. Dai cui risultati dipende, non meno che da altri fattori, e forse anche di più, anche la sopravvivenza del governo gialloverde.

La situazione, avvertita come pericolosa questa volta persino dal solitamente serafico Conte, oltre ad arroventare il dibattito politico fuori e dentro la maggioranza -con le opposizioni anch’esse divisesi sul da farsi, tra i forzisti di Silvio Berlusconi -per esempio-decisi al pari della destra di Meloni a sostenere Salvini e i piddini di ogni tendenza a cavalcare invece la vicenda giudiziaria contro il ministro dell’Interno- ha naturalmente scatenato la fantasia generalmente brillante dei vignettisti e dei titolisti delle prime pagine. Brillante, però, con una eccezione almeno a mio parere: quella di Mauro Biani, che sul manifesto si è lasciato prendere la mano dall’antisalvinismo ed ha in qualche modo paragonato il processo al ministro dell’Interno a quello di Norimberga contro i boia nazisti.

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