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Russia Taiwan

Come e perché Biden fa la pace con Putin

L'analisi di Enzo Reale sul vertice tra Biden e Putin, per Atlantico Quotidiano.

Uno strano vertice quello tra Joe Biden e Vladimir Putin a Ginevra. Strano soprattutto per l’atteggiamento del presidente americano, passato in poche settimane dal considerare il suo interlocutore un “killer” all’invito ufficiale a Ginevra. E strano anche per quell’apparente nulla di fatto, al di là delle dichiarazioni di circostanza nelle conferenze stampa separate, che ha seguito il loro incontro. Non che le aspettative fossero elevate, vista la dinamica degli ultimi mesi tra Washington e Mosca. Ma se c’è qualcuno che sembra uscire vincitore dal confronto è proprio il russo che, senza strafare, è riuscito ad incassare un importante successo diplomatico che corona uno dei suoi principali obiettivi: essere riconosciuto dall’avversario come una controparte a tutti gli effetti. Un salvagente che la Casa Bianca getta a un Putin in grave difficoltà sul piano internazionale, dopo la vicenda Navalny, l’appoggio a Lukashenko e le rinnovate schermaglie nel Donbass.

C’è solo una lettura possibile per dare un senso a questo meeting fortemente voluto dall’amministrazione Biden: la necessità di raffreddare il fronte orientale in Europa per concentrarsi su quello asiatico, leggasi cinese. Da qui il sostanziale via libera al North Stream 2, l’allentarsi della tensione sul Mar Nero, l’ambiguità sulle velleità Nato dell’Ucraina, il tutto coronato dall’incontro “pragmatico” di Ginevra. Sarebbe interessante capire fino a che punto lo sia stato, non essendo certo il controllo degli armamenti e la cybersicurezza i veri motivi che hanno portato all’organizzazione di questo summit. Le prossime settimane ci daranno qualche informazione aggiuntiva.

Per il momento dobbiamo accontentarci delle dichiarazioni ufficiali, in cui i due leader hanno parlato soprattutto ai rispettivi uditori: protezione dei diritti umani, attenzione alta su Navalny e linee rosse sulle ingerenze russe nella politica americana, per Biden; fermezza nella prevenzione dell’instabilità interna, rifiuto delle pressioni occidentali nell’estero vicino e palloni fuori sulle accuse di attacchi informatici, per Putin.

Ma il diavolo è nei dettagli. Innanzitutto sorprende lo scarso peso dato da entrambe le parti alla questione ucraina. Quello che era un tema chiave nelle relazioni tra Russia e Occidente fino ad aprile è praticamente stato derubricato a ordinaria amministrazione. Biden si è incaricato durante il vertice Nato di congelare l’entusiasmo di Zelensky sulla prospettiva dell’adesione e Putin ha liquidato la faccenda con una battuta secca: “Non c’è niente da discutere”. Sul Donbass il presidente Usa si è limitato a ribadire il suo sostegno agli accordi di Minsk. Conclusione probabile: i due hanno concordato il mantenimento dello status quo, che in pratica significa che Putin può consolidare le posizioni acquisite con la forza senza intromissioni rilevanti nell’immediato futuro. Non un bel segnale per Kiev e gli alleati dell’Europa centro-orientale che, mentre vedono completarsi il gasdotto della discordia (North Stream 2) sotto i loro occhi, devono prendere atto anche del probabile ridimensionamento del programma nucleare Nato in Europa e del rifiuto americano di aumentare gli aiuti militari all’Ucraina. Mosse chiaramente distensive, al limite dell’appeasement, destinate – nelle intenzioni di Washington – a comprare se non la collaborazione almeno la neutralità della Russia nella partita geopolitica che gli americani considerano in questo momento come prioritaria, quella con la Cina.

Si tratta in un certo modo di un rovesciamento di prospettiva rispetto alle aspettative iniziali che avevano accompagnato l’arrivo di Biden alla Casa Bianca. Gli analisti osservavano allora che il successore di Trump avrebbe cercato un accomodamento iniziale con Pechino per concentrarsi sull’indebolimento dello storico rivale russo, nei cui confronti prometteva un marcamento implacabile. Era un’opinione alimentata dalle stesse dichiarazioni di Biden e del suo entourage, in linea con l’apparente linea dura del Partito democratico verso il regime di Putin. Alla prova dei fatti la retorica ha lasciato spazio da un mese a questa parte a uno scenario completamente diverso, fatto di riconoscimenti diplomatici e concessioni concrete da parte americana, tanto che se al posto di Biden ci fosse ancora Trump oggi risuonerebbero sulla stampa mainstream accuse di docilità, se non di complicità, nei confronti del nemico.

Il cambiamento di strategia americana può avere senso, se letto nell’ottica del contenimento cinese. Nel manuale delle relazioni internazionali il coinvolgimento di Mosca in funzione anti-cinese è un dogma da cui è difficile affrancarsi. Tuttavia fa riflettere la repentinità della svolta che, come minimo, non è stata adeguatamente spiegata a livello di opinione pubblica. Sono in molti oggi negli Stati Uniti, anche tra i media vicini alla presidenza Biden, a chiedersi quale fosse l’impellente necessità di convocare un vertice bilaterale che sarebbe stato utilizzato da Putin come vetrina per riaffermare la propria proiezione internazionale e per accreditarsi come leader di una potenza indispensabile ai progetti dell’Occidente. Ma il rischio principale della nuova politica bideniana risiede nel fatto di dover confidare nella bontà delle intenzioni della controparte, a cui Washington avrebbe addirittura consegnato una lista di obiettivi specialmente sensibili da mantenere al margine dei cyber-attacchi. Un’ingenuità perfino sospetta che, c’è da sperare, dovrebbe implicare una serie di impegni concreti da parte russa di cui, peraltro, al momento non si ha notizia.

Aprire le porte della geopolitica europea a Putin rischia di compromettere un interesse strategico vitale degli Stati Uniti, ovvero impedire che la Russia aumenti la sua sfera di influenza nel continente. Era questa la logica sottesa all’opposizione al North Stream 2, ormai caduta, e in generale alla pressione che Washington stava esercitando sull’estero vicino russo (Ucraina, Mar Nero, Turchia). La distensione inaugurata da Biden invece sarà utilizzata verosimilmente da Putin come una grande vittoria di immagine sul piano interno, dove continua la repressione del dissenso e dell’opposizione politica, e come un precedente da spendere in caso di ulteriori iniziative espansive. Se nel momento di maggior isolamento internazionale della Russia è arrivato proprio da Washington un inatteso salvagente, sarà difficile pretendere dal Cremlino una condotta restrittiva o almeno prudente quando si ripresenti l’occasione per affondare il colpo.

Non è un caso che, nei giorni immediatamente precedenti il vertice, Putin abbia dichiarato nel corso di un’intervista alla Nbc che a nulla sarebbero serviti i “tentativi di distruggere le relazioni fra Russia e Cina” tra cui si era sviluppata – sempre parole sue – “una partnership strategica mai vista prima”. Un messaggio piuttosto chiaro al suo anfitrione che, a quanto pare, non ha impedito che il vertice si svolgesse come previsto. Come primo risultato concreto da segnalare l’annunciato ritorno degli ambasciatori nelle rispettive sedi diplomatiche, per il resto buoni propositi, qualche impegno non vincolante sugli armamenti e una stretta di mano per la quale il russo ha rotto il suo isolamento pandemico. Ma se le intenzioni non dichiarate di Biden erano quelle di recuperare la Russia in vista dello scontro frontale con la Cina, sembra ci sia ancora parecchio lavoro da fare. Ufficialmente l’incontro ai vertici è stato rubricato alla voce “prevenzione di ulteriori contrasti” tra le parti: insomma, un foro di discussione in cui non si risolvevano dispute ma si mettevano sul tavolo le rispettive posizioni. Forse bastava una telefonata, però.

P.S. Tornato a casa, Vladimir Putin ha dichiarato ieri ai giornalisti che Joe Biden non ha vuoti di memoria, che gli appunti li consultano tutti e che nelle tre ore di colloquio con lui è stato lucido. Insomma, ha pensato bene di ringraziarlo così.

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