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Verità e bugie su Repubblica

Vi racconto fesserie e contraddizioni lette in questi giorni su Repubblica fra cronaca e storia. La lettera del professor Alegi

Caro direttore,

Se Startmag fosse in vendita o a rischio chiusura, qualcuno chiederebbe di assicurarne la sopravvivenza a spese dello Stato? No, naturalmente, perché questa non è Repubblica. Partendo da questa ovvietà, della quale mi scuso, consentimi di aggiungere qualche considerazione alle lettere di Gianluca Zappa e Claudio Trezzano.

La crisi dei quotidiani è un fenomeno globale, legato alla trasformazione delle modalità di scambio delle informazioni e allo spostamento delle utilità reciproche. Per dirla più semplicemente: internet ha eliminato la necessità di strutture per raccogliere, elaborare e distribuire “contenuti” a una pluralità di utenti, ed in cambio ricevere una tariffa per il servizio e – auspicabilmente – pubblicità.  La fruizione era un pacchetto, che metteva al centro chi sapeva confezionarlo, non importa se per un pubblico generalista, politicizzato o specialistico. Con internet tutto si è polverizzato: che si tratti di notizie, musica, serie tv o porno, è il singolo utente a scegliere caso per caso il prodotto che gli interessa, senza pagare alcun prezzo diretto. È sin troppo facile dire che i media italiani questa trasformazione prima non l’hanno vista arrivare, poi l’hanno rifiutata e ora la piangono come disgrazia imprevedibile. (Un po’ come Alitalia, che prima rifiutò di prendere atto del “quinto pacchetto” di liberalizzazione europea, poi si autoconvinse che Treviso non poteva essere l’alternativa low cost di Venezia e poi è fallita varie volte.)

Eppure è andata proprio così. Prima sono spariti i giornali di partito e di area (do you remember Paese Sera?), poi si sono accorpati quelli diciamo regionali e ora tocca a quelli nazionali. Nessuno ha saputo convincere i lettori di essere una fonte affidabile di notizie verificate di interesse generale, per la quale vale la pena pagare un prezzo. Sono rimasti tutti al totem della carta, a partire dai giornalisti più esperti, lasciando l’online ai giovani, distorcendo l’insegnamento di McLuhan per cui il messaggio è determinato dal mezzo. Sempre più chiusi nella casta, sempre più a parlarsi tra loro, sempre più convinti che nel gran traffico delle informazioni il compito della stampa non sia fare il semaforo ma guidare l’autobus. «Tanto la gente deve comunque spostarsi, no?» E invece no. Per tornare alla metafora Alitalia, si può volare low cost, prendere un treno ad alta velocità (presto, spero, anche per la Sicilia) o un Flixbus, persino la propria auto.

Ed eccoci a Repubblica. Chi ha i capelli bianchi ne ricorderà la nascita come giornale d’opinione che non usciva il lunedì e non aveva lo sport. Ricorderà come l’azionista di riferimento fosse Mondadori, preoccupata dello strapotere Rizzoli Corriere della Sera nel promuovere i propri prodotti, autori e persino linea politica. Ricorderà come i nobili propositi andarono presto a farsi benedire di fronte all’iniziale difficoltà di raggiungere il pareggio. Ricorderà come in soccorso arrivarono il Satyricon (che nel 1978 aggiungeva 40.000 copie a uscita) e lo sport in genere (dal 1979, beninteso con lo stile complottista incarnato dallo pseudo-scoop sui mondiali di Spagna “comprati”). Ricorderà come nel 1987 a trainare le vendite giunse il concorso a premi Portfolio (che chiamavo “porcfolio”, con un giudizio lapidario sulla qualità intrinseca dell’iniziativa, che comunque valeva 220.000 copie e lo scavalcamento della Stampa). Ricorderà che nel 1994 giunse anche il lunedì (ma solo dopo che Frigidaire aveva fatto uscire una ventina di finte edizioni, nello stile de Il Male). Ricorderà il ruolo dell’ego smisurato di Eugenio Scalfari, che in cuor suo a Craxi non rimproverava la corruzione ma la mancata rielezione nel 1972 (pare per un «Lei non sa chi sono io!» all’indirizzo di un ghisa).

Ricorderà la battaglia giudiziaria contro Berlusconi sull’acquisto di Mondadori (e dunque del partito-Repubblica), prova generale di quello che sarebbe accaduto nel 1994.

Ricorderà, insomma, come – al di là di molti singoli giornalisti – il progetto di Repubblica non sia stato tanto fare informazione quanto amplificare il messaggio di una posizione politica, che non a caso affondava le proprie radici nella pretesa di superiorità morale del Partito d’Azione. Era, se vogliamo, come quando una direzione marketing prende il potere ignorando produzione, qualità, distribuzione e ogni altra funzione aziendale. Fino a perdere i clienti-lettori, spariti insieme al prodotto sempre più stentato, formulaico, prevedibile, come certificano i dati elettorali. Un danno esteso anche alla Stampa sotto la direzione repubblicana. (Peccato, perché della Busiarda ho un buon ricordo sotto ogni aspetto, dall’uso dell’italiano al garbo dei giornalisti, con i quali solidarizzo.)

Mi dirai, Direttore, che da questo ritratto traspaia scarso amore per Repubblica. Senza arrivare al limite della Schadenfreude, non è del tutto errato. Quando gli altri infilavano in tasca il quotidiano di Piazza Indipendenza, con il formato berlinese comodo e sbarazzino, io restavo fedele a Via Solferino o altri lenzuoli. Quando si trattava di votare, non seguivo Repubblica ma cercavo di formarmi un’idea da solo. Forse per questo, l’unica volta che sono comparso sulle sue pagine è stato per essere additato nemico del popolo per la mia posizione su Ustica. (Purtroppo, come sai, portare il cervello all’ammasso non mi è mai piaciuto, anche se poi significa essere saltati quando il potere di turno distribuisce premi e cotillon. Al contrario di quello scambio favori-prestigio che per molti anni Repubblica ha garantito.)

Concludo tornando nel tuo campo, cioè i numeri. Per scongiurare la vendita allo straniero, che evidentemente non garantirebbe la stessa veicolazione dei loro messaggi, i politici che si riconoscono in Repubblica chiedono a gran voce al governo di intervenire, salvare, proteggere e così via. Da un certo punto di vista, è il cerchio che si chiude: il giornale-partito che chiede aiuto al partito che resterebbe senza giornale, o se vogliamo la parte che si immagina Stato che chiede di salvare la propria Gazzetta Ufficiale. Da un altro, sembra impossibile che da quella parte non si pensi con nostalgia alla “battaglia di Segrate” o a un intervento come quello per L’Unità, che grazie alla legge n. 224/1998 vide la collettività accollarsi circa 110 milioni di euro di debiti legati alla sua uscita di scena. Purtroppo, le leggi dell’economia insegnano che se il valore (reale o percepito) è inferiore al prezzo, e il prezzo inferiore al costo (compreso quello del debito e della remunerazione del capitale), il futuro è grigio. Per Repubblica come per qualsiasi altra impresa.

Con i migliori auguri per gli editori e i giornalisti veri.

Gregory Alegi

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