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Renzi

Verità, amnesie e frottole di Matteo Renzi su Craxi, Moro e Leone. I Graffi di Damato

Perché sono tardivi i richiami di Renzi a Craxi e Moro nella difesa della politica da Procure e piazze secondo il notista politico Francesco Damato La partecipazione alla maggioranza ha sicuramente aiutato Matteo Renzi a ottenere in tempi abbastanza brevi una discussione al Senato sulla vicenda giudiziaria e mediatica del finanziamento della sua attività politica,…

La partecipazione alla maggioranza ha sicuramente aiutato Matteo Renzi a ottenere in tempi abbastanza brevi una discussione al Senato sulla vicenda giudiziaria e mediatica del finanziamento della sua attività politica, avvenuta attraverso la ormai disciolta Fondazione Open quando lui apparteneva al Pd scalandone con successo il vertice, e con esso anche quello del governo. Che l’uomo di Rignano non guidò certamente in sordina, purtroppo contribuendo, come vedremo, e a dispetto del suo linguaggio combattivo, alla situazione di cui ora si lamenta.

Pur legittimamente promossa alla questione dei rapporti fra i poteri dello Stato, per non dire papale papale fra la magistratura e la politica, o viceversa, la discussione fortemente voluta da Renzi, che vi ha partecipato da protagonista, circondato dai suoi nei banchi della nuova Italia Viva, ha pagato pegno, diciamo così. La presidenza della seduta, nonostante la sontuosità del tema, é stata assunta non dalla presidente stessa del Senato ma dalla vice grillina Paola Taverna: obiettivamente la più lontana, per stile e convinzioni, dallo spirito col quale il dibattito era stato voluto da Renzi, per quanto egli sia da qualche mese partecipe, come ho accennato, della stessa maggioranza in cui si riconosce l’esponente pentastellata. La quale è incline più al giustizialismo che al garantismo, almeno per il significato corrente attribuito, a torto o a ragione, ai due fenomeni o sentimenti.

Ai banchi del governo non si è presentato nessuno, neppure uno straccio di sottosegretario, perché risultasse con la massima evidenza possibile l’estraneità, a dir poco, dell’esecutivo alla materia in esame. Già prima della discussione peraltro il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede aveva tenuto a dissentire dalle critiche di Renzi agli inquirenti, e a condividere invece le proteste levatesi con la consueta solerzia dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Non hanno brillato di presenze neppure i banchi parlamentari diversi da quelli renziani, dei cui vuoti diffusi si è compiaciuto in rete, con tanto di foto, il più antirenziano forse dei giornali, Il Fatto Quotidiano, per dimostrare quanto poco ormai conti l’ex presidente del Consiglio. Un po’ troppo avari di applausi o altri segni di consenso sono stati durante l’intervento di Renzi i suoi ex compagni di partito, il cui tesoriere Luigi Zanda d’altronde, già prima della discussione, aveva rimproverato al suo ex segretario di avere usato i pur legittimi finanziamenti della Fondazione Open più per la sua personale attività politica che per le esigenze più generali e costose del Pd, in crisi anche nei rapporti con i suoi dipendenti.

Renzi, dal canto suo, smettendola finalmente di parlarne come di un personaggio diseducativo, o qualcosa del genere, e guadagnandosi per una volta un apprezzamento del figlio Bobo, ha dovuto per una inesorabile nemesi storica richiamarsi al famoso discorso di Bettino Craxi alla Camera contro il “vuoto” orrendo e pericoloso che la magistratura stava creando già nel 1992. Allora il finanziamento della politica fu liquidato sommariamente come una questione giudiziaria, e di malavita. Sarebbe stato forse più saggio da parte di Renzi ricordarsi di Craxi e delle sue preoccupazioni per la discrezionalità della magistratura quando contribuì da Palazzo Chigi alla diffusione giurisdizionale di quella curiosa fattispecie del traffico d’influenze che potrebbe adesso creare problemi anche ai suoi passati, presenti e futuri finanziatori. Le leggi vanno maneggiate con cura già quando si fanno e si lasciano applicare in modo distorto.

Scontato ed efficace, anche nella sua drammaticità, é stato il richiamo renziano al monito lanciato da Aldo Moro l’anno prima del suo tragico sequestro contro la pretesa di processare “sulle piazze” gli avversari politici di turno. Meno scontato e pertinente mi è apparso invece il richiamo di Renzi alla pur dolorosa e ingiusta avventura di Giovanni Leone. Che il senatore di Scandicci crede sia stato davvero costretto alle dimissioni da presidente della Repubblica nel 1978 per la campagna scandalistica cavalcata persino dai radicali, scusatisi vent’anni dopo, sugli apparecchi militari di trasporto dell’americana Loocheed venduti con mazzette o simili all’Italia.

Davvero Renzi crede ancora che quella pur inconsistenza campagna contro Leone, per i cui uffici non aveva potuto transitare nessuna pratica di quella fornitura di aerei, pur essendo lui amico del suo ex collega universitario e rappresentante della Loockheed in Italia, il professore di diritto della navigazione Antonio Lefebvre d’Ovidio, fu l’origine, la causa e quant’altro dello sputtanamento – consentitemi la franchezza – procurato all’allora presidente della Repubblica costringendolo alle dimissioni? Via, qualcuno si decida a raccontare e spiegare finalmente a Renzi, allora bimbo di soli tre anni, che Leone fu messo in croce e costretto alla ritirata semplicemente per essersi messo di traverso sulla strada della cosiddetta linea della fermezza durante il sequestro di Aldo Moro. Per il cui salvataggio, o tentativo di salvataggio, il capo dello Stato aveva predisposto, con l’appoggio – guarda caso – solo o soprattutto di Craxi, a concedere la grazia a Paola Besuschio. Che era nell’elenco dei 13 “prigionieri”, cioè detenuti per reati di terrorismo, con i quali le brigate rosse avevano reclamato di scambiare il povero Moro, condannato a morte dal loro presunto “tribunale del popolo”.

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