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Vaticano

Vaticano, l’accordo con Pechino alla prova di Hong Kong

Pubblichiamo un estratto di "Il santo realismo — Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco" di Matteo Matzuzzi (Luiss University Press)

 

Nell’autunno del 2019, mentre divampava la protesta a Hong Kong – inizialmente pacifica ma che poi ha conosciuto fasi anche violente – un esperto di questioni cinesi qual è lo storico Agostino Giovagnoli scriveva che “il futuro di Hong Kong è la Cina, non l’Occidente”. Il problema è che, aggiungeva molti che soffiano sul fuoco sembrano agire come se non fosse così. In questo modo però ingannano i giovani che protestano e non li aiutano a costruire un futuro migliore dentro un orizzonte che lo stesso Occidente ha contribuito a costruire, che si è ormai consolidato e che appare oggi segnato. C’è chi parla di una nuova Guerra fredda.

C’è da augurarsi che non sia così, per moltissimi motivi. Anche per non rivedere le scene che si sono viste durante la prima Guerra fredda, quando la propaganda occidentale denunciava e condannava quanto avveniva nell’altro campo, mentre nessuno poteva o voleva fare nulla per aiutare chi si trovava in situazioni tanto drammatiche. Una visione integralmente realista: piacerebbe a tutti che le colombe di Hong Kong avessero la meglio sul regime comunista ateo che fa sparire preti e rade al suolo chiese, ma il mondo ora va in tutt’altra direzione. Che fare? Morgenthau lo suggeriva quando, appunto, sosteneva che i “princìpi morali devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e di luogo”.

Non è una novità assoluta per la Chiesa, in passato l’ha fatto già. Si pensi alle politiche concordatarie, alle concessioni a Napoleone, con Pio VII che benedì l’imperatore mentre si calava sul capo la corona. Il fine è la sopravvivenza della Chiesa o, nel contesto odierno, darle la capacità di condurre al meglio la sua missione tra gli uomini del nostro tempo. Certo, al prezzo di enormi concessioni: rispetto al dossier cinese, il prezzo da pagare è il silenzio. Nulla si può dire sul pugno di ferro del regime a Hong Kong, non una parola sulla violazione dei diritti umani nei riguardi delle minoranze – e quando capita, come il Papa ha fatto parlando degli uiguri pur senza mai nominare Pechino (“Io penso spesso ai popoli perseguitati: i rohingya, i poveri uiguri, gli yazidi”), le proteste e le minacce sono istantanee e veementi: “Le sue dichiarazioni sono basate sul nulla”, sbottò Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, aggiungendo che “tutti i gruppi etnici nel Paese godono del pieno diritto alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla libertà religiosa”. Il realismo lo impone, anche a costo di rifiutare di concedere udienza al cardinale Zen a pochi giorni dall’ufficializzazione del rinnovo dell’Accordo provvisorio.

Hanno fatto il giro dei social network e dei giornali di buona parte del mondo le foto del quasi novantenne porporato mentre guardava la basilica di San Pietro sapendo che il Pontefice non l’avrebbe ricevuto. Potere dei media, si dirà: data la delicatissima situazione, l’immagine del Papa assieme al cardinale che più si oppone, da Hong Kong, al regime cinese, avrebbe potuto avere conseguenze ovvie sul dialogo tra Roma e Pechino. Silenzio e prudenza, dunque. A dimostrarlo sono anche le interviste che Francesco ha concesso da quando è Pontefice. Ogni qualvolta che sul tavolo viene posto il capitolo cinese, il Papa si ritrae: poche parole, massima attenzione, nessuna divagazione. Solo l’amore per il popolo cinese e il desiderio, reiterato e reso esplicito, di poter un giorno visitare il grande Paese asiatico.

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