La luna di miele di Kamala Harris con l’elettorato statunitense è finita. È quanto sembra suggerire il più recente sondaggio New York Times-Siena College, che vede Donald Trump al 48% tra quanti intendono votare, in vantaggio di un punto sulla candidata democratica, al 47%. I media e i social del centrodestra hanno salutato il dato con soddisfazione tanto comprensibile quanto forse eccessiva, come se fino a poche ore prima avessero dato per certa la sconfitta di Trump, con le relative conseguenze. Ma è davvero così?
Un’America spaccata, dicono i sondaggi
L’elemento più significativo non è il sostanziale pareggio, perché tale è la differenza di un punto in un sondaggio con un margine di errore di più o meno due punti, quanto la certificazione che entrambi i candidati hanno esaurito i vantaggi offerti dai fattori straordinari dei quali avevano goduto in luglio (Trump, dalla débacle di Biden al dibattito all’attentato, fino alla convention di Milwaukee) e agosto (Harris, dall’entusiasmo per la rinuncia di Biden fino alla convention di Chicago).
Durante questi periodi simmetrici ma asincroni, ciascun candidato ha monopolizzato l’attenzione e incassato il relativo bonus, drogando la percezione di amici e avversari. Se prima è parso invincibile Trump e poi Kamala, entrambe le rappresentazioni erano insomma errate. Le distorsioni facevano comodo a tutti. A Trump il presunto sorpasso di Harris serviva a spingere il partito repubblicano a fare quadrato intorno a lui; a Harris il vantaggio di Trump serviva a raccontare la bontà della decisione di cambiare cavallo in corsa.
Un sondaggio non fa primavera
Secondo un vecchio proverbio americano, «esistono le bugie, le grandi bugie e le statistiche». Altrettanto vale per i sondaggi, almeno finché li si prende isolatamente. In un paese di circa 330 milioni di abitanti, in cui si elegge il presidente attraverso un barocco sistema di oltre 50 elezioni regionali, è infatti inutile magnificare (o deprecare, va da sé) i risultati di un unico sondaggio, che sia quello dell’istituto di riferimento del proprio schieramento o, al contrario, dell’avversario. E, per quanto ben costruito il modello, è difficile che un campione di appena 1.695 persone riesca a catturare le complessità dell’intera nazione.
Non a caso, da qualche tempo, il miglior predittore della vittoria è la media dei vari sondaggi: un concetto piuttosto fragile sotto il profilo matematico, ma molto più preciso in termini empirici per la sua capacità di bilanciare i bias e i limiti dei singoli istituti. È quello che fa il Washington Post, che fa la media di ben 123 sondaggi per fotografare un vantaggio complessivo di due punti a favore di Harris. Si scopre così che per l’Economist/Yougov Harris batte Trump 47 a 45, per il conservatore Wall Street Journal 48 a 47, per USA Today/Suffolk University addirittura 48-43, per Reuters/Ipsos 45-41 (che però diventa 52-45 quando Ipsos lavora per ABC: misteri della campionatura!) e così via.
Non tutti i sondaggi sono giornalieri, naturalmente, e può darsi quindi che quelli di appena pochi giorni fa risentano ancora del clima post-Chicago mentre il NYT-Siena incorpori la delusione per la complessiva banalità della prima intervista televisiva di Kamala. Sta di fatto che basare le previsioni su un solo sondaggio sembra più azzardato che prudente.
I sette stati in bilico
Il Washington Post aggiunge un altro elemento, forse ancora più importante: l’analisi degli stati in bilico, sia in termini di situazione attuale che di variazione da quando Biden ha rinunciato. Trump è in testa in Georgia (+2 punti in media), Arizona (+1) e North Carolina (+1), ma Harris ha rimontato rispettivamente 4,5, 4,2 e 4,2 punti; Harris è in tesa in Wisconsin (+3, in crescita di 3,5 punti), Pennsylvania (+2, in crescita di 2) e Michigan (+1, in crescita di 4,6). In Nevada c’è il pareggio, grazie ai cinque punti di rimonta di Harris.
Anche qui, sarebbe sbagliato fermarsi ai soli sondaggi d’opinione. In Georgia, come in Texas e Arizona, dopo il 2020 sono state prese misure per la sicurezza del voto, in parte condivisibili (come la creazione della traccia cartacea del voto espresso con macchine elettroniche) e in parte strumentali (come l’obbligo di dimostrazione della cittadinanza). In alcuni stati, è stato addirittura introdotto un meccanismo che consente a chiunque di eliminare un elettore dalle liste elettorali semplicemente fornendone nome, cognome e codice fiscale. Quale sarà l’impatto di queste misure non è facile da prevedere, ma è chiaro che i sondaggi costruiti sulle precedenti modalità di voto potrebbero non catturare questa novità.
A due mesi dal voto, la partita è dunque aperta. Anzi, inizia con il dibattito di stasera.