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Università

Usa, Cina e Italia. Mappa geopolitica delle eccellenze universitarie (e dell’educazione)

L'approfondimento di Salvatore Santangelo

Mentre il Governo giallo-verde lancia (ma senza effettivamente concretizzare) una serie di misure che investono la realtà universitaria e dell’alta formazione (dal dubbio effetto pratico, ma dal roboante contenuto propagandistico: abolizione del valore legale del titolo di studio e dei test di ammissione per le facoltà a numero chiuso, in particolare Medicina), il mondo sta andando da tutt’altra parte.

Nicholas Kristof, editorialista di punta del Nyt, nel 2006 dedica un pezzo allo “studente modello”.

Al centro dell’inchiesta pone Xuan-Trang Ho, “Rhodes scholar” laureata con il massino dei voti. Ciò che colpisce Kristof è che Ho era arrivata dal Vietnam solo nel ’94, a 11 anni e senza comprendere neanche una parola d’inglese, ma al liceo si esprimeva tanto bene da essere selezionata per pronunciare l’orazione di inizio anno; forse proveniva da una famiglia colta?

Accade infatti spesso che i figli di emigranti indiani conseguano alte votazioni perché di famiglia brahminica, in cui i bambini, già a sette anni, imparano il sanscrito e quindi l’analisi logica e la precisione di una lingua classica. Ma non è il caso di Ho. I suoi genitori hanno frequentato solo la scuola media e fanno lavori manuali.

Il motivo per cui i giornali americani si interessano a una studentessa modello è estremamente concreto. La Cina e l’India emergono con il loro milione di ingegneri l’anno (contro i 170mila di Usa ed Europa), e gli americani si domandano, non senza una certa ansia, come mai gli asiatici riescano meglio negli studi.

Il loro successo è certificato dai risultati dello Scholastic Assessment Test: hanno un punteggio medio di 1091, i bianchi di 1068, i pellerossa di 982, gli ispanici di 922 e i neri di 864.

Kristof tenta di analizzare questi dati e afferma che: “la loro eccellenza negli studi non è dovuta alla psicologia degli immigrati che stringono i denti per avanzare, perché gli studenti d’origine giapponese – americani di quarta e quinta generazione – hanno risultati sempre eccellenti. E non dipende nemmeno dall’ambiente familiare colto, perché anche figli e nipoti di contadini cinesi si laureano a pieni voti. E non si può dire che gli asiatici siano più intelligenti degli altri, perché la riuscita accademica dipende dal contesto”.

Negli Usa, infatti, gli studenti coreani sono bravissimi, mentre in Giappone, dove l’immigrazione coreana è una minoranza etnica disprezzata, spesso abbandonano gli studi e finiscono nella yakuza. È la conferma di un’esperienza che ogni vero pedagogo conosce: tratta uno studente da stupido e ne farai un ripetente; disprezza una comunità e la renderai pericolosa.

Dov’è allora il segreto della loro eccellenza? Le famiglie asiatico-americane tendono a rimanere unite, pronte a sacrificarsi per i figli e focalizzate sulla loro riuscita, in un contesto di assoluta reverenza per lo studio. Quindi, per Kristof, occorre creare un sistema di “onore pubblico” per gli studenti eccezionalmente bravi, sistema che ha per corollario un nuovo prestigio sociale per gli insegnanti.

Questi temi ci mettono di fronte alla grande emergenza che attanaglia anche il nostro Paese e che si chiama “educazione”. Un’emergenza che Roger Abravanel non si stanca mai di indicare come la priorità da affrontare e che Roberto Ippolito ha fotografato nel suo implacabile “Ignoranti – L’Italia che non sa / L’Italia che non va” (Chiare Lettere).

Si tratta di un’emergenza che riguarda ciascuno di noi, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. È quello che don Giussani chiamava, non a caso, “Il rischio educativo”. Nella Gran Bretagna concentrata sulla Brexit è scoppiato un mezzo scandalo nazionale (con un corollario di durissimo dibattito pubblico) quando il FT ha pubblicato uno studio dell’Ocse che certifica la drammatica carenza di competenze per affrontare le trasformazioni produttive della forza lavoro targata UK. Una situazione tanto grave da posizionare la Gran Bretagna al secondo posto di questa poco edificante graduatoria. E qual è il Paese che invece detiene questo triste primato? Nella più assoluta indifferenza, l’Italia. L’unico che sembra avere a cuore questo tema è il presidente Sergio Mattarella, che nel suo messaggio di fine anno ha fatto un significativo passaggio proprio sull’emergenza educativa di giovani e meno giovani. A ridosso di quell’accorato appello i vertici di EY (Donato Iacovone e il suo stretto collaboratore Donato Ferri, responsabile people advisoy) hanno voluto lanciare l'”Alleanza per il lavoro del futuro” chiamando, a loro volta, imprese, università e strutture formative a contribuire nel ridurre efficacemente la disoccupazione in Italia. Il tema è ancor più delicato in vista dell’adozione di Quota100, che amplificherà l’opportunità, ma anche il rischio di mismatching tra domanda e offerta di nuove professionalità.

L’iniziativa è stata rilanciata la scorsa settimana nel corso delle giornate di lavoro della XXX edizione del congresso nazionale dell’Associazione Italiana Formatori guidata da Maurizio Milan. Aif ambisce sempre più a ricoprire il ruolo di tessuto connettivo tra questi mondi, senza confondere formazione al lavoro ed educazione. La globalizzazione non è un pranzo di gala, ma una serrata competizione per il talento: speriamo che se ne rendano presto conto anche i nostri rappresentanti politici.

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