Caro direttore,
confesso di aver tirato un sospiro di sollievo dopo aver letto quel che il Senato accademico e il Consiglio di amministrazione della Sapienza hanno messo nero su bianco dicendo un secco no a chi pretendeva – e poi, a diniego ricevuto, si è sfogato come ormai sappiamo tutti, con le mani – il boicottaggio della collaborazione scientifica con gli atenei israeliani.
È stato come un balsamo per me leggere quell’invito rivolto ai “componenti della comunità scientifica a difendere il carattere universalistico e libero della ricerca scientifica, che costituisce la condizione della sua stessa esistenza e la premessa necessaria affinché essa possa trasformarsi in uno strumento di incontro pacifico, scambio e comprensione tra popoli e culture”.
La rettrice Polimeni e il Senato della prima università della capitale tirano diritto dunque malgrado le intimidazioni ricevute che rappresentano il culmine di una stagione talmente infelice per la nostra alta formazione da spingere molti studenti ebrei – come ha scritto pochi giorni fa Repubblica – a non osare affacciarsi più in aula.
Non vi si presentano più perché ormai affollate da coetanei imbevuti di propaganda e grondanti talmente tanto odio da dimenticare di essere parte di una comunità, quella universitaria, che l’odio dovrebbe semmai curarlo e non alimentarlo, e con una ricetta chiamata scienza e cultura che non può, pena la sua stessa fine, essere ostaggio di pregiudizi partigiani del tutto incompatibili – Sapienza dixit – con l’abbraccio universalistico che le università e la conoscenza che produce come propria specifica missione creano tra i paesi, i popoli e le civiltà.
Ponti e non muri, dicono da tempo i pontefici, ma per qualcuno invece i templi del sapere chiamati università devono erigere barriere altissime per isolare i malvagi. Gli si chiede di schierarsi, piegarsi al vento del momento, e colpire con l’esclusione e lo stigma chi non si allinea ai propri valori particolaristici, in questo caso la convinzione che nella cosiddetta Terra Santa ci sia un solo aguzzino e una sola vittima, ossia un intero popolo – i palestinesi – che soffre per volontà anzi disegno di un altro popolo crudele e feroce al punto da ricordare i famigerati nazisti.
Per fortuna a Roma c’è chi sa dire no al diktat di chi vorrebbe fare di simili teoremi verità assolute e soprattutto motivo per tagliare i rapporti coi colleghi israeliani ed ebrei indegni, si ritiene dall’alto della propria purezza, di essere onorati da una collaborazione o dal nostro saluto.
Ma la provvidenza ritrovata a Roma purtroppo è latitante a Torino e a Pisa dove per tentare di interrompere le relazioni con gli ebrei ci si è aggrappati alla retorica del dual use.
Con una mozione approvata due settimane fa il Senato accademico della Normale ha infatti chiesto al nostro ministero degli Esteri di “riconsiderare il Bando scientifico 2024” per quel che riguarda la cooperazione scientifica con le università israeliane. Per il rettore Luigi Ambrosio occorre in particolare “promuovere una riflessione in merito al rischio di cosiddetto ‘dual use’ – civile ma potenzialmente militare – di alcune ricerche” che secondo il Magnifico coprirebbero “non solo l’area strettamente scientifica, ma anche quella industriale e tecnologica”.
E malgrado la smentita della Farnesina sulle finalità militari nel suddetto Bando dove si parla peraltro di “tecnologie per la salute del terreno” e per il trattamento delle acque, per la Normale prevale il rischio di violare addirittura l’“articolo 11 della nostra Costituzione”, che dovrebbe darci l’ultima parola sull’opportunità di non rispondere più al telefono agli israeliani.
Analogo problema è stato sollevato all’università di Bari: anche lì non vogliono indossare l’elmetto con la Stella di David ed ecco quindi il rettore Stefano Bronzini spiegare al Foglio due giorni fa della “discussione che abbiamo avuto in una seduta del Senato accademico (durante la quale) abbiamo preso atto che nessun ricercatore ha voluto partecipare al bando Maeci”.
Quando però il giornalista ha ricordato a Bronzini che alla Università da lui guidata annoverano 14 progetti di ricerca condivisi con istituzioni di ricerca iraniane (a Torino sono 16), il rettore si incarta, nega che Bari abbia boicottato chicchessia ma ammette che “l’unica scelta che mi sono sentito di fare è stata quella di uscire, come rettore, dalla fondazione Med-Or” del gruppo Leonardo, attivo nella difesa e nell’aerospazio.
Ma la saga – o il sabba, che forse è meglio – non è finita perché pure alla Federico II di Napoli, dopo l’occupazione del Rettorato, il rettore, Matteo Lorito, si è detto disponibile – scrive il Corriere della Sera – “a dimettersi dal comitato della Fondazione Med-Or e ad affrontare nella riunione del prossimo Senato Accademico la richiesta degli studenti di chiudere la collaborazione tra la Federico II e l’Università Al-Quds di Gerusalemme”.
Dovrei concludere, direttore, che non ci sono più i rettori e le università di una volta. Poi però ripenso a Polimeni e alla Sapienza e, rincuorato, continuo a credere che non tutto è perduto.
A proposito, direttore, La Sapienza non è quel luogo dove una quindicina di anni fa la conferenza programmata di un certo Joseph Ratzinger incontrò talmente tanti consensi tra gli studenti da spingere l’allora pontefice a rinunciarvi?