Un filo rosso unisce le due sponde dell’Atlantico attraversate dalla medesima fibrillazione riscontrabile nelle università americane come nelle piazze italiane. Da Piazza Duomo a Milano al campus della Columbia, è sempre la questione israelo-palestinese a spaccare l’opinione pubblica e a mobilitare le coscienze. Ma secondo Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, questo tratto comune alle due democrazie come a molte altre nel mondo rivela anche uno dei vizi di fondo di un sistema talmente polarizzato da prediligere la propaganda agli stessi dato storici.
La protesta nelle università e nei campus Usa dilaga. Cosa vogliono gli studenti?
L’obiettivo è far abbracciare alle università l’agenda e le finalità del movimento cosiddetto BDS, acronimo che comprende le parole Boycott, Disinvest e Sanction che mira a colpire Israele, la sua economia e le sue istituzioni facendo loro pagare il prezzo del conflitto coi palestinesi.
Agli atenei cosa si chiede nello specifico?
Gli si chiede la rescissione degli accordi accademici con le università israeliane ma anche quella dei contratti con aziende legate più o meno direttamente allo Stato ebraico o al suo governo.
Chi in particolare avanza queste richieste?
Ad avanzarle sono alcuni gruppi studenteschi che operano a livello nazionale e hanno ramificazioni nelle singole università. Il più attivo è sicuramente quello chiamato Students for Justice for Palestine, che si distingue per una propaganda antisionista molto marcata. Stiamo parlando di organizzazioni che in certi casi godono di finanziamenti da Paesi come il Qatar.
Cosa stanno facendo, come si sviluppano queste proteste?
I gruppi in questione hanno organizzato diversi “walk out”, ossia uscite collettive dalle aule, ma anche messo in piedi nei campus accampamenti o vere e proprie tendopoli come quella installata nel parco della Columbia o alle università della California come del Texas. Ci sono state manifestazioni persino nella mia università a Orange.
Cosa sta succedendo nella sua università?
Anche da noi gli studenti hanno abbandonato le lezioni varie volte, sebbene ora la situazione ora sia relativamente calma, tra manifestazioni tutto sommato pacifiche, dibattiti e letture. Qui per fortuna non ci sono stati tafferugli malgrado si siano tenute anche contromanifestazioni che hanno visto protagonisti gli studenti ebrei.
Se a Orange la situazione è sotto controllo, non lo stesso si può dire per la Columbia.
Sì, c’è una distinzione da fare tra gli atenei più tranquilli come il mio e quelli militanti come la stessa Columbia o Berkeley. Qui si sono verificati episodi davvero spiacevoli incluso l’invito, per usare un eufemismo, di tornare in Polonia rivolto agli studenti ebrei. Sono questi i fenomeni che hanno allarmato l’opinione pubblica e anche la politica.
Lo stesso presidente Biden ha condannato l’antisemitismo anche se con una dichiarazione che è stata giudicata una gaffe.
Direi che Biden è riuscito nel miracolo di ripetere più o meno quello che disse Trump sette anni fa dopo scontri di piazza innescati da una manifestazione di estrema destra. Trump disse che c’erano persone buone da ambo i lati.
Ma è proprio una gaffe secondo lei?
In verità le parole di Biden tradiscono la disperazione di fronte al rischio di alienarsi la componente di sinistra del suo partito ma anche quella parte di elettorato che simpatizza per gli ebrei e per Israele. Inevitabile dunque che chi scrive i suoi discorsi faccia l’equilibrista.
Non è solo con Israele che lo scenario politico americano appare polarizzato.
Questo non è solo un problema americano ma mondiale. Del resto in Italia ieri si sono viste scene molto simili a quelle cui assistiamo negli Usa.
La questione israelo-palestinese spacca come poche.
Questo è vero, e secondo me il problema è che a sinistra, dove è almeno dagli anni Sessanta che si sposa la causa palestinese, non si è prestata attenzione alla deriva nazista di Hamas. Si tende a ignorare ad esempio che movimenti come Hezbollah sono prettamente fascisti.
Anche l’altra parte sbaglierà pur in qualcosa.
Purtroppo anche chi sta dalla parte di Israele tende ad ignorare gli errori fatti dai governi israeliani, in particolare quelli presieduti dall’attuale premier Netanyahu, circondato da leader ultraortodossi e della destra religiosa che hanno atteggiamenti inaccettabili.
In mezzo a questo tifo c’è anche chi perde di vista gli stessi dati storici e dunque la complessità di una questione non solo intricata ma antica.
Verissimo, addirittura tra gli opposti campi si sceglie arbitrariamente la data a cui risalirebbe la controversia. Abbiamo dunque chi fa partire tutto dal 1948, anno della fondazione di Israele, e chi fa risalire lo scontro persino alla colonizzazione araba avvenuta poco dopo la morte di Maometto e con modalità su cui qualcuno preferisce glissare.
Malgrado una storia così difficile e così sofferta, la tendenza di molti è a semplificare.
Anche qui ha ragione. Purtroppo i messaggi semplici sono quelli che raccolgono maggiore consenso, anche se il risultato poi è di dipingere il quadro in bianco e nero colpevolizzando solo una parte e trasformando l’altra in vittima pura e semplice. Ma in questo modo, ritraendo la propria parte come l’unica che ha ragione, si produce il risultato di cui si parlava prima, ossia la polarizzazione.