Accomunati nella morte tanto quanto furono distanti in vita: il 21 gennaio 1924 moriva V.I. Lenin, l’inventore del comunismo; il 21 gennaio 1950 moriva George Orwell, il suo critico più lucido. Non amo gli anniversari, perché credo che le cose importanti non debbano trasformarsi in baracconi indistinguibili dalle feste commerciali, ma la coincidenza spinge a qualche riflessione.
Innanzitutto, la diversa attenzione riservata ai due personaggi. Anche tenendo conto del fascino della cifra tonda, non ho visto alcun ricordo di Orwell sulla carta stampata e uno solo, sommesso, in rete. Per Lenin si sono mobilitate diverse sigle politiche, marginali finché si vuole ma pur sempre interessate a diffondere foto, meme e slogan.
Seconda considerazione: l’interesse per l’anniversario rispecchia quello per l’idea sottostante. Chi celebra Lenin intende innanzi tutto riproporne la visione politica, comprese l’imposizione della volontà del partito su quella della popolazione e la prevalenza della dimensione collettiva su quella individuale. Con buona pace della storiografia marxista occidentale, da E.H. Carr a Hobsbawm, i limiti di quella esperienza sono oggi universalmente noti, così come è da tempo superata la distinzione tra un Lenin “buono” e uno Stalin “cattivo”.
Invece, chi ricorda Orwell confronta l’ideale politico con la sua attuazione pratica, nella quale il raggiungimento degli obbiettivi politici, ma soprattutto l’affermazione della nuova classe dirigente, facevano premio su qualsiasi altra considerazione. Che si tratti dell’Omaggio alla Catalogna, della Fattoria degli animali o di 1984, è questa esperienza di partecipazione e disillusione che Orwell racconta. Se vogliamo, usando la storia (anche sotto forma di metafora) come verifica della filosofia e l’esperienza come antidoto all’utopia.
Il mito di Lenin riposa soprattutto sulla precoce morte, sufficiente a separarlo cronologicamente dagli orrori staliniani e a valorizzare il parziale ritorno all’economia di mercato con la NEP, dopo i disastri del comunismo di guerra e della politica economica socialista (SEP). Dei suoi testi rimangono come aforismi gli “utili idioti” e il forse apocrifo “I capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo”, rimuovendo l’architettura del terrore contenuta in frasi come “consiglio temporaneamente di nominare i superiori e sparare ai cospiratori e ai vacillanti, senza chiedere niente a nessuno e senza permettere la burocrazia idiota” o “La dittatura rivoluzionaria del proletariato è il potere conquistato e mantenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, ed è il potere non vincolato da alcuna legge” o “Considerate di fare un manifesto alla popolazione in cui dichiariamo di macellarli tutti”.
La grandezza di Orwell inizia nella guerra civile di Spagna, dov’è testimone della lotta interna dei comunisti conto gli anarchici, i trozkisti e le altre posizioni antifranchiste. Il suo iniziale scetticismo verso il comunismo si tramuta così in avversione, con un percorso comune a tanti altri politici e intellettuali che rifiutarono di far coincidere l’antifascismo con il comunismo. È il caso, per ricordarne solo uno, del repubblicano Randolfo Pacciardi, che da comandante del Battaglione Garibaldi a Guadalajara nel 1937 divenne ministro della Difesa nel 1948. Per la generazione successiva, un ruolo analogo svolgerà l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, che spinse ad allontanarsi dal PCI intellettuali di valore come Renato Mieli o Renzo De Felice, del quale, per un caso, sarà poi allievo il figlio Paolo Mieli.
Se i testi di Lenin mantengono interesse storico per comprendere la rivoluzione russa del 1917, la costruzione dell’URSS o la dottrina comunista, è difficile immaginare quale fortuna editoriale potrebbe avere oggi la sua opera completa, che gli Editori Riuniti pubblicavano nel 1955 in ben 45 volumi (nove in più dell’Opera omnia di Mussolini, pubblicata dalla Fenice tra il 1951-63).
I libri di Orwell, al contrario, sono di straordinaria attualità perché distillano il significato degli eventi contemporanei in una visione atemporale del totalitarismo. Invenzioni geniali come la “neolingua”, nelle quali il senso delle parole è rovesciato, o il maiale Napoleone “più uguale degli altri”, invalidano alla radice la retorica comunista. Il trasferimento del potere ai soli maiali, affinché lo amministrino nell’interesse di tutti, o la sorveglianza intrusiva del Grande Fratello sono al tempo stesso realtà e metafora, constatazione e denuncia.
A ben guardare, si tratta dunque di due anniversari assai diversi. A un secolo dalla sua scomparsa Lenin è poco più che una curiosità per nostalgici, una mummia terribile che esemplifica il culto della personalità dei regimi totalitari di ogni epoca e latitudine. George Orwell, morto da 73 anni, è più attuale che mai, grazie a libri che ne tramandano la voce plasmata – non solo metaforicamente – sul fronte di Barcellona. Lo dicono persino i russi, che nel 2022 hanno fatto di 1984 il primo romanzo e il secondo libro più venduto nel paese.
Più che unirli, insomma, il 21 gennaio sottolinea soprattutto la distanza tra il politico e lo scrittore.