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Intini

Vi racconto Ugo Intini, odiato più di Craxi nel Pci

Storia e passioni fra giornalismo e politica di Ugo Intini, morto a 82 anni. Il ricordo di Damato pubblicato sul quotidiano Libero.

Ugo Intini, morto a 82 anni nella sua Milano, dove tutto era cominciato politicamente per lui nella redazione locale dell’Avanti!, lo storico giornale socialista di cui sarebbe diventato poi direttore e infine biografo – autore della storia di quella testata più completa e in molti tratti commovente fra le tante, intrecciata con quella più generale dell’Italia – è stato per me più di un amico. Quasi un fratello. Abbiano condiviso simpatie e antipatie, politiche e umane. Pensare di non poterlo più incontrare né sentire, avendo avuto a Roma la fortuna anche di abitare vicino, mi sembra un’assurdità. Una cattiveria, addirittura, perché – vi giuro – avrei preferito precederlo nel ritorno al padre, come si dice quando si muore.

INTINI, IL GIORNALE E CRAXI

Ci conoscemmo quando, lasciato il Giornale ancora diretto da Indro Montanelli, dove avevo lavorato dalla fondazione facendo, fra l’altro, il capo della redazione romana, il notista politico e infine l’editorialista, lui mi telefonò per passarmi Bettino Craxi. In difesa del quale avevo rotto con quel mostro sacro del giornalismo che era appunto Montanelli. Il quale – vi assicuro – a Craxi non poteva certo perdonare rapporti di debolezza col Partito comunista, come aveva praticamente fatto col direttore del Corriere della Sera Piero Ottone lasciandolo e decidendo di fargli poi concorrenza con un altro quotidiano, non potendogli bastare l’ospitalità offertagli sulla Stampa da Gianni Agnelli in persona.

No. A Craxi il direttore del Giornale non perdonava “Il carattere”, diceva. Che era semplicemente il rifiuto di andarlo a riverire di tanto in tanto, come facevano altri politici, a cominciare da Giovanni Spadolini. Che d’altronde da ex direttore del Corriere, prima di Ottone, doveva all’amico Indro anche la sua elezione al Parlamento nelle liste del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa. A presentarne la candidatura a Milano era stato proprio Montanelli.

Lasciatemi dire con tutta franchezza, e un po’ anche con immodestia, che Montanelli era non so se più sospettoso o geloso del rapporto personale di stima e poi anche di amicizia che Bettino aveva, fra quelli del Giornale, con Enzo Bettiza e con me. Col quale una volta, arrivato a Roma da Milano, Indro si lamentò duramente che Craxi lo avesse salutato all’aeroporto lamentandosi non ricordo più esattamente di che cosa fosse appena uscito sul Giornale, E mandò a dirgli, tramite me appunto, di stare attento con la sua “spavalderia”.

Eppure Craxi, passatomi al telefono da Intini dopo la rottura intervenuta per un mio commento non pubblicato a favore del leader socialista accusato congiuntamente dalla sinistra democristiana e dal Pci di volersi appropriare dell’Eni in un giro di nomine in corso al suo vertice; Craxi, dicevo, bruscamente mi rimproverò di essere stato intempestivo perché su quelle posizioni, e in quel momento, prima delle elezioni politiche del 1983, non avrei trovato un posto dove lavorare. E quando gli comunicai, dopo qualche settimana, che un posto l’avevamo già trovato nel gruppo editoriale di Attilio Monti sia io che Bettiza, che aveva solidarizzato con me lasciando pure lui il Giornale, disse laconicamente: “Monti è vecchio e non so cosa ne sarà dopo dei suoi giornali”. Non proprio un augurio di buon lavoro, mi sembrò.

LA TRAGEDIA DI TANGENTOPOLI

Con Intini, dopo quella telefonata, cominciò un’intensa frequentazione personale. Che, scoppiata Tangentopoli, diventò anche rischiosa. Usciti una volta da Euclide, un bar con tavola calda vicino alle nostre abitazioni romane, ci vedemmo quasi investiti da una moto con due giovanotti che ci gridarono: “ladri”.

Per darvi l’idea di che tragedia politica, e non solo umana, fosse stata Tangentopoli, come sommariamente si chiamano ancora sia la città delle tangenti, nominalmente, sia l’indagine “Mani pulite” aperte a Milano contro il finanziamento illegale dei partiti e i presunti ma congiunti reati di corruzione, concussione e simili, vi racconterò una telefonata ricevuta da Intini una sera alla direzione del Giorno, a maggio del 1992. Ugo mi chiese con molto garbo come avessi deciso di uscire con le notizie diffuse dalle agenzie sulle indiscrezioni parlamentari che volevano Craxi già coinvolto nelle indagini. Gli risposi che sarei uscito con un titolo a metà della prima pagina sulla smentita ufficiale della Procura di Milano. Che peraltro mi era stata anticipata personalmente da Antonio Di Pietro in un incontro occasionale avuto nel pomeriggio in Piazza della Scala, Nel quale il pm aveva tenuto a precisare che nessun elemento contro Craxi era contenuto nelle carte inviate dai suoi uffici alla Camera per procedere nelle indagini contro Paolo Pillitteri, il cognato, e il predecessore a sindaco di Milano Carlo Tognoli.

Intini allora mi chiese se mi avesse procurato troppo imbarazzo una telefonata dal direttore dell’Avanti! Roberto Villetti, che aveva deciso di trattare diversamente il caso. Villetti non so quanto volentieri mi chiamò , ma per chiedermi a sua volta perché mai volessi espormi così tanto a favore del segretario del suo partito. Non gli risposi. Mi limitai a interrompere la comunicazione, come l’interessato dopo qualche tempo, eletto deputato con l’aiuto dei comunisti, mi rimproverò nei corridoi della Camera.

Credo che Intini nel Pci di Enrico Berlinguer negli anni Ottanta fosse stato l’uomo più odiato dopo Craxi, che aveva osato sottrarre il Psi alla sostanziale subordinazione voluta dal predecessore Francesco De Martino annunciando nel 1976 che i socialisti non sarebbero più tornati a governare con la Dc senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti. Non solo Craxi riportò il Psi al governo con lo scudo crociato senza i comunisti ma rivendicò e alla fine ottenne Palazzo Chigi. “una cosa – disse poi con franchezza De Martino al plurale, cioè alludendo a Pietro Nenni – alla quale noi non avevamo mai neppure pensato”.

I RAPPORTI TRA D’ALEMA E INTINI

Eppure Intini, proprio lui, Ugo, nel 2006, sei anni dopo la morte di Craxi ad Hammamet, senza avere mai rinnegato nulla di ciò che aveva scritto e detto, si sarebbe sentito offrire dal titolare della Farnesina Massimo D’Alema l’incarico di vice ministro degli Esteri nel secondo governo di Romano Prodi, E Bobo Craxi, il figlio di Bettino, la carica di sottosegretario con la delega della rappresentanza presso le Nazioni Unite. Parlo, ripeto, di D’Alema: lo stesso che era stato presidente del Consiglio all’epoca della morte di Craxi prodigandosi inutilmente perché la Procura di Milano garantisse il rimpatrio del leader socialista dalla Tunisia per ragioni di salute, mancandogli ormai pochi mesi di vita dopo un intervento non risolutivo per un tumore renale. In ospedale col piantone davanti alla porta della stanza, risposero a Milano, E Craxi preferì morire ad Hammamet, sepolto sotto una lapide in cui è scritto su sua disposizione “La mia libertà equivale alla mia vita”.

Naturalmente i rapporti fra D’Alema e Intini, e Bobo Craxi, non nacquero all’improvviso, Segni di avvicinamenti, contatti e simili erano emersi già prima della morte di Bettino. Che reagì inizialmente molto male, anche parlandomi personalmente contro Intini. Del quale era appena uscito uno dei tanti libri scritti dopo la vicenda di Tangentopoli: “troppo lungo”, mi disse a tavola cenando con la moglie, la segretaria Serenella e altri ospiti. Io gli dissi di essere troppo ingeneroso e gli feci presente che avrebbe dovuto diffidare non di Intini ma di chi gli ostentava rumorosamente amicizia ma gliene aveva fatte di tutti i colori negli anni del governo e della maggioranza. E gli feci alcuni nomi abbastanza altolocati, che non ripeto perché si tratta di morti che non sono quindi in grado di difendersi. Bettino per stizza lasciò la tavola prima che la cena finisse, ingoiando in fretta le pastiglie passategli dalla moglie e andandosene a letto.

Il giorno dopo c’incontrammo di prima mattina nel cortile di casa per il saluto prima della mia partenza. Bettino era ancora in pigiama. E, mettendosi la testa fra le mani seduto ad una panca, pianse dicendomi: “Salutami tutti quelli che ritieni siano i miei amici”. Pianse anche Ugo quando glielo raccontai.

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