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Tunisia

Ecco le mire di Putin (non solo sull’Ucraina)

Il commento di Gianfranco Polillo

Matteo Salvini, nella sua lunga intervista a Il Giornale, accusa chi non la pensa come lui – noi tra questi – “di voler prolungare la guerra fino alla sconfitta della Russia”. Processo alle intenzioni che, per la verità, trova una ben scarsa conferma nei fatti reali. Sembrerebbe, nelle tesi del leader della Lega, che Putin smani dalla voglia di sedersi ad un tavolo di pace. E che siano gli Ucraini a voler continuare la guerra, essendo questa, come sostengono molti amici del nostro, “una guerra per procura”. Ossia per conto della NATO, con alla testa americani ed inglesi. Come se i bombardamenti delle città – missili e bombe al fosforo, l’eccidio in massa dei civili, vari crimini di guerra – non fossero documentati ogni giorno da reporter indipendenti.

Le accuse hanno quindi uno scarso fondamento. Soprattutto mostrano la corda. Rovesciando il ragionamento in modo simmetrico, nei suoi fondamenti logici, forse é il leader della Lega a volere non la sconfitta, ma la “vittoria” di Putin. Il quale non fa mistero dei suoi intendimenti. Si siederà al tavolo della pace solo quando gli obbiettivi della “operazione militare speciale” (dichiarazione dello stesso del 23 febbraio notte) saranno raggiunti. Quali siano poi questi obiettivi non é dato da sapere. La conquista di tutto il Donbass: da Kharviv fino a Kherson? L’estensione dell’occupazione russa fino alla Transnistria, grazie all’intervento della Bielorussia, dopo aver inglobato Odessa, e precluso all’Ucraina ogni sbocco sul mar Nero. É questo il disegno della “vittoria” di Putin, da sancire con la pace invocata da Salvini?

E chi ci dice che questo non sia solo un primo passo, verso qualcosa di più ambizioso? Del resto non é stata questa la molla, il legittimo dilemma, che ha spinto Finlandia e Svezia a rompere con una decennale neutralità e chiedere l’ingresso nella NATO? In tutti questi anni, la Russia ha mostrato una coerenza espansionistica degna di miglior causa: 2008 Georgia, nascita delle due repubbliche separatiste filo russe di Abkhazia e Ossetia, dopo una guerra che l’Occidente ha fatto finta di non vedere. 2013 la rivolta di Piazza Maidan e la cacciata del Presidente ucraino filo russo Viktor Janukovyč, che si era rifiutato di presentare la domanda d’ammissione all’Unione europea. 2014 annessione della Crimea da parte russa. Sanzioni da parte dell’Occidente, più volte contestate, in seguito, dalla Lega e Forza Italia. Quindi, per un effetto domino, la lunga guerra civile del Donbass, durata ininterrottamente fino all’invasione del 24 febbraio ultimo scorso.

C’é da dire che non si sia trattato solo di scelte imposte dalle circostanze, ma di una strategia pensata, elaborata, ma soprattutto comunicata all’Occidente. Da Putin sempre più considerato una sorta di “ventre molle” in cui era facile affondare. Ed in parte aveva anche ragione, visto l’assoluta mancanza di una qualsiasi reazione e la disattenzione mostrato per questo quadrante geopolitico, molto più importante, ad esempio, dell’Iraq di Saddam Hussein (2003) la cui estromissione segnò l’inizio di una trafila di tragici errori o della Libia di Gheddafi (2011).

Si doveva diffidare della Russia, all’indomani della caduta del muro di Berlino? Certo che si. Altro che le tesi sulla “fine della storia”. Bisognava diffidare per mille ragioni. Soprattutto per quell’arsenale nucleare destinato inevitabilmente a dare lo scettro del comando all’unica struttura, quella militare, in grado di non dissolversi durante la fase concitata della “shock therapy” (Naomi Klein). Né era pensabile che una Nazione, che aveva dominato il ‘900, potesse accettare di trasformarsi in una piccola potenza al margine delle vicende europee. Si poteva sempre immaginare che il passaggio da un’economia bloccata al libero mercato avrebbe fatto miracoli. Ma chi ragionava in questo modo sottovalutava il peso di incrostazioni burocratiche decennali: destinate a frenare qualsiasi anelito riformatore.

Vladimir Putin, già nel 2007, aveva compreso che non era questa la strada, sebbene i successi economici, grazie ad un prezzo del petrolio passata da 10 a 110 dollari il barile, fossero stati enormi: una crescita media di quasi il 6 per cento dal 1998. Nella Conferenza sulla sicurezza europea di Monaco di Baviera, (2007) avevo schernito l’Occidente: “il Pil di paesi come l’India e la Cina, è già più grande di quello degli Stati Uniti. Ed un calcolo simile del Pil dei paesi del BRIC- Brasile, Russia, India e Cina- supera quello complessivo dell’EU. E secondo esperti in futuro questo gap potrà solo aumentare.” Insomma il domani non era più dell’Occidente. Perché “non c’è nessuna ragione di dubitare che il potenziale economico dei nuovi centri della crescita economica globale andrà inevitabilmente a convertirsi in influenza politica e rafforzerà il multipolarismo”. Ossia la fine di un egemonia.

Qualche anno dopo sarà più esplicito. Nell’illustrare, nel 2013, la “Concezione della politica estera della Federazione Russa” sosterrà che la Russia intende assumere, d’ora in poi, il ruolo di un nuovo “centro di gravità” sulla scena internazionale e che l’idea guida dell’azione sarà l’euroasiatismo. Di conseguenza: una pietra tombale sul progetto di Dmitri Medvedev di giungere alla creazione di uno spazio comune di sicurezza euro- atlantica e sull’invito rivolto all’Unione europea di aderire al processo di modernizzazione della Russia. Una cesura netta con l’idea di Gorbaciov sulla “casa comune” ed in netto contrasto con il “processo di Helsinki” del 1975. Ma soprattutto un giro di boa, con gli occhi rivolti ad oriente ed ai BRIC, di cui la Russia faceva parte e tra i quali intendeva svolgere un ruolo di punta, grazie soprattutto alla sua potenza militare.

Ci riuscirà? Difficile fare previsioni. L’unica cosa certa era che la conquista dell’Ucraina era una pedina fondamentale di quel disegno. Per evitare che l’Unione economica euroasiatica, che esiste fin dal 2015, non fosse quella poca cosa che é attualmente, a causa delle resistenze diffuse delle repubbliche (tra gli altri Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan) che ne fanno parte. Non tutte disposte a subire fin dall’inizio l’eccessiva pesantezza di Mosca. Ancor meno dopo l’invasione dell’Ucraina. Che resta comunque un monito rivolto non solo ai Paesi un tempo appartenenti al blocco comunista.

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