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Tutto va benino, ma Meloni è preoccupata

Meloni teme che il prossimo anno sarà peggiore del 2025, eppure i dati le confermano un gradimento maggiore del 2024. Il problema, la premier lo sa, è la lentezza italiana rispetto all’accelerazione globale e riguarda piazze come palazzi, cittadini come politici. Il corsivo di Battista Falconi

Perché Giorgia Meloni, facendo gli auguri ai dipendenti di Palazzo Chigi, li ha avvertiti che il prossimo anno sarà peggiore del 2025? La battuta non può essere del tutto casuale ed è difficile non collegarla all’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale. Al quale però la premier dovrebbe guardare fiduciosa, visto che Nando Pagnoncelli conferma con i dati Ipsos sul Corriere che il suo governo, pur tanto longevo, gode di un gradimento del 42% (un punto in più del 2024) appena inferiore a quello personale, 43% sempre con +1 nell’anno.

I timori meloniani potrebbero nascere dai punti in meno di consenso rispetto all’insediamento: 12 per l’esecutivo e addirittura 15 per lei. Una lenta, fisiologica erosione da parte di chi si aspettava politiche più radicali. La costruzione di un’alternativa al centrodestra resta quasi impossibile, il quadro è statico, non sono da prevedere eccessivi problemi ma non c’è nemmeno da cullarsi sugli allori. Si potevano realizzare cambiamenti più radicali nelle istituzioni, nella cultura, nella politica industriale o nel posizionamento internazionale? Il sospetto di immobilismo è degli avversari ma soprattutto degli alleati ed elettori più sovranisti: ed è questo a impensierire poiché, se difficilmente ci saranno travasi significativi tra maggioranza e opposizione, il rischio astensione rimane molto concreto.

Il cambiamento nel contesto globale c’è eccome, le trasformazioni sono anzi rapide. Siamo in accelerazione tecnologica, si pensi all’intelligenza artificiale; comparti obsoleti come l’automotive sono afflitti da irreversibili crisi strutturali, non congiunturali; la crescente domanda di energia è un punto interrogativo; dominano e-commerce, pagamenti digitali e criptovalute, smart working e nuove contrattualizzazioni; le borse sono in rally e i metalli preziosi fanno a gara con le terre rare. Tutte novità afferenti all’innovazione e alle dinamiche iper-liberali del post-capitalismo, indipendenti dalla politica. I governi non sono più i motori del cambiamento; governano nel senso di gestire, normare e contenere, non di indirizzare; le trasformazioni sono incontenibili in termini sociali e le riforme in real time ormai contano più delle rivoluzioni intese come cambiamento di status. Si può cercare di mantenere un minimo di stabilità, non si riesce a sognare.

È “La normalità che cambia le cose”, commenta Alessandro Campi. Come si adatta l’Italia in questo contesto? Malino, se guardiamo al rinvio della decisione sulla data del referendum costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati dopo il Consiglio dei ministri, ancora siamo incerti tra l’1-e il 22-23 marzo, si vogliono evitare tensioni e ricorsi dopo la raccolta firme sul nuovo quesito, obiettivo 500.000 entro il 30 gennaio. Anche il Quirinale avrebbe esercitato una moral suasion per non compromettere il processo. Cavilliamo su dubbi giuridici, compatibilità, temiamo di ristampare le schede. E il Governo potrebbe perdere il vantaggio del “Sì” nei sondaggi, ben 10 punti, mentre le opposizioni hanno più tempo per organizzare i “No”.

È clamoroso lo iato tra le accelerazioni innovative globali e la querelle referendaria, il clima politico rissoso, i giuristi sostenuti dal campo largo contro il quesito proposto dai parlamentari, il quesito sulla scheda che già sappiamo non renderà chiaro cosa cambierebbe se vincesse il “Sì” o il “No”. Ma molto di più avvilisce la notizia che l’Autostrada Asti Cuneo è stata completata dopo 34 anni. È questa lentezza che ci mette fuori gioco, quella in cui ignavia, neofobia, machiavellismo e particulare tipici degli italiani si sommano tra livello popolare e istituzionale, politico e civico, piazze e palazzi. Una nazione arretrata dentro, dove forse si vive bene anche per questo, ma più da turisti che da italiani.

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