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Giorgetti

Tutti gli errori (storici e politici) di Scalfari intervistato da Molinari

Perché il notista politico Francesco Damato è rimasto trasecolato da ciò che ha detto il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, all'attuale direttore del quotidiano del gruppo Gedi, Maurizio Molinari

Beh, si rimane francamente trasecolati a leggere la lunga intervista del fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari al direttore Maurizio Molinari, catalogata peraltro come “cultura” e non politica, visto forse il deprezzamento o discredito della seconda in questo passaggio a dir poco confuso e tormentato del Paese, dove gli equilibri fra i partiti e gli schieramenti, e all’interno di essi, sembrano dei birilli.

Scalfari – con la complicità silenziosa dell’intervistatore, interessato ad accreditare una certa continuità della sua direzione rispetto alla linea e persino agli umori del fondatore, non foss’altro per smentire quanti invece sottolineano e a volte lamentano differenze imposte da una nuova linea dettata dall’altrettanto nuova proprietà Elkann-Agnelli – ha riproposto il riformismo e il liberalsocialismo come riferimenti costanti della sua lunga attività giornalistica. Ed è tornato a inserire il compianto Enrico Berlinguer, che soleva frequentare a casa, sua o del portavoce Antonio Tatò, tra i riformisti più convinti e apprezzabili, erede quasi di Carlo Rosselli e forse anche di Filippo Turati, pur non menzionato quest’ultimo. Così come non è stato mai menzionato nell’intervista l’inviso Bettino Craxi, che pure ebbe proprio sul riformismo uno scontro durissimo con Berlinguer, conclusosi storicamente e politicamente, secondo esponenti del vecchio Pci come Piero Fassino in un libro autobiografico, a vantaggio del leader socialista. Che vide prima e contro un certo conservatorismo berlingueriano la necessità, fra l’altro, di una riforma istituzionale.

Ma la memoria, diciamo così, ha tirato un altro brutto, anzi bruttissimo scherzo a Scalfari. Che è tornato, fra l’altro, ad attribuire al povero Moro, parlando di un incontro avuto con lui “poco prima” del giorno del suo tragico sequestro ad opera delle brigate rosse, il progetto di una vera e propria alleanza col Pci “per due legislature”, e non di una tregua di breve durata, espressasi con l’astensione e poi il voto di fiducia vera e propria dei comunisti a un governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Peccato, per Scalfari, che proprio in quei giorni Moro da presidente della Dc aveva chiuso una lunga trattativa col Pci sbarrandogli la porta del governo socchiusa invece da Andreotti e dall’allora segretario democristiano Benigno Zaccagnini con l’ipotesi di nomina a ministri di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste comuniste.

Moro non solo chiuse quella porta ma si oppose anche all’estromissione dal governo di due democristiani contro cui il Pci aveva posto il veto: Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia. La loro conferma provocò una tale irritazione fra i comunisti da mettere in discussione il voto di fiducia appena concordato. Solo il sequestro di Moro, la mattina del 16 marzo 1978, arrestò la rivolta nel Pci ed evitò la riapertura della crisi.

In quei giorni, secondo i ricordi di Scalfari, addirittura Enrico Berlinguer sarebbe già morto, con sei anni di anticipo. Almeno questa, forse, l’intervistatore poteva risparmiargliela al fondatore interrompendolo, o intervenendo dopo. Invece ha preferito lasciargliela lì. Tanto, specie in questi tempi tutto fa cultura, e non solo politica.

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