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Germania Ucraina

Tutti gli errori di Usa e Germania su Ucraina e Russia

Che cosa fanno e non fanno Usa e Germania dopo il riconoscimento russo delle repubbliche separatiste del Donbass. L'analisi di Federico Punzi per Atlantico Quotidiano

 

Ci ha messo quasi 24 ore Washington a definire “invasione” l’ingresso delle truppe russe nelle province occupate del Donbass, mentre tre indizi nella giornata di ieri confermano quanto scriveva Enzo Reale: Vladimir Putin non si fermerà al Donbass, ha in testa Kiev. Se qualcuno, in Occidente, pensava di indurlo ad accontentarsi con una reazione blanda, ha sbagliato i suoi calcoli. Il presidente russo rivuole l’intera Ucraina sotto il suo controllo. Non pone limiti alla sua missione di riconquista. Il suo è un piano per tappe, che porta al cambio di regime a Kiev, non ad una incorporazione ma all’Ucraina stato satellite a sovranità limitata, come la Bielorussia.

Primo indizio. Dopo qualche incertezza e segnale contrastante anche da Masca, Putin stesso ha confermato ieri ufficialmente che il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass si estende alle intere regioni di Donetsk and Lugansk, compresi i territori ancora sotto il controllo delle forze ucraine, circa due terzi.

Strettamente collegati gli altri due indizi. Ieri il Consiglio della Federazione, il Senato russo, ha autorizzato l’uso delle forze armate russe all’estero. E sempre ieri il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, non uno abituato a parlare a vanvera, ha dichiarato che l’Ucraina “non ha un diritto alla sovranità”, avendo perso questo diritto nel 2014, da quando cioè Kiev non rappresenta tutta la popolazione sul suo territorio. Sono delle dichiarazioni di guerra.

Ieri però sono anche arrivate le prime sanzioni occidentali. Inizialmente l’amministrazione Usa si era limitata a bloccare gli investimenti americani nelle regioni riconosciute come indipendenti da Mosca, quindi senza nemmeno sanzionare la Russia (e quale impresa Usa sarebbe così folle da investire oggi a Donetsk o Lugansk?), poi ieri in serata il presidente Biden ha annunciato qualcosa di più: il completo blocco di due istituzioni finanziarie russe, VEB (la banca statale russa per lo sviluppo, ndr) e Promsvyazbank (la banca di cui si serva l’industria della difesa russa, ndr), e sanzioni sul debito sovrano della Russia, in modo da impedire al governo russo l’accesso ai finanziamenti occidentali.

Regno Unito e Unione europea, oltre a colpire il commercio delle due regioni separatiste, hanno adottato un pacchetto di sanzioni contro banche e oligarchi russi collegati alle decisioni del Cremlino e alle operazioni militari, negando mercati, servizi finanziari e capitali Ue allo Stato e al governo russo.

Ma la vera sanzione è arrivata da Berlino, con la decisione del governo tedesco di sospendere il processo di approvazione del gasdotto Nord Stream 2. “C’è stato un cambiamento drammatico nella situazione e ora dobbiamo rivalutarla; questo includerà Nord Stream 2”, ha spiegato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, annunciando di aver “chiesto al nostro Ministero dell’economia di condurre una nuova analisi sulla sicurezza dell’approvvigionamento energetico. Nelle circostanze attuali, la certificazione non è possibile”. Aggiungendo: “Sembra tecnico, ma è un passaggio amministrativo necessario, senza il quale non può avvenire alcuna certificazione del gasdotto”.

Attenzione: Nord Stream 2 non è morto, non è la rinuncia al gasdotto, ma per ora viene messo ufficialmente in stand by.

In realtà, di fatto cambia poco dopo l’annuncio di Scholz, perché il processo era già sostanzialmente fermo in attesa di una soluzione legale della società in grado di soddisfare la normativa europea che impone una separazione tra fornitore e trasportatore del gas – punto come comprenderete delicatissimo politicamente, perché se sia l’uno che l’altro fossero russi…

E in realtà, Mosca era già irritata per questo dilungarsi di tempi, tanto che, come scrivevamo nel novembre scorso, già dall’inizio dell’autunno il gas russo arrivava con il contagocce nei centri di stoccaggio europei (come ancora oggi, da qui l’aumento dei prezzi) e molti analisti collegavano l’aumento delle forniture da parte russa all’avvio del nuovo gasdotto. Insomma, il Nord Stream 2 non era ancora entrato in funzione e l’Europa si trovava già sotto il ricatto di Putin.

“La Russia è destinata a continuare la fornitura ininterrotta di gas, compreso il gas naturale liquefatto, ai mercati globali, per migliorare l’infrastruttura esistente e aumentare gli investimenti nel settore del gas”, ha dichiarato ieri il presidente russo in quella che a molti è sembrata una rassicurazione. Solo che non stava parlando della crisi ucraina, ma agli ospiti del VI Summit del Forum dei Paesi esportatori di gas.

La reazione di Mosca all’annuncio di Scholz è arrivata invece da Dmitry Medvedev e non era affatto rassicurante: “Bene. Benvenuti nel nuovo mondo in cui gli europei molto presto pagheranno 2 mila euro per mille metri cubi di gas naturale”. Un tweet seguito dall’auspicio del Cremlino che lo stop al gasdotto sia solo “temporaneo” e per “ragioni politiche”.

Certo, ulteriori aumenti dei prezzi del gas, o addirittura blackout, dovuti a eventuali interruzioni delle forniture, a causa del conflitto ucraino o per rappresaglia da parte russa, metterebbero nei guai l’economia europea – e certamente in ginocchio le imprese italiane.

Scholz aveva provato a tenere il gasdotto fuori dalla lista delle sanzioni alla Russia, ma non ha potuto far altro che rispettare l’impegno preso con Washington.

“Il presidente Biden aveva chiarito che se la Russia avesse invaso l’Ucraina, avremmo agito con la Germania per garantire che Nord Stream 2 non andasse avanti”, ha scritto la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki su Twitter. “Siamo stati in contatto con la Germania per tutta la notte e accogliamo con favore il loro annuncio”. Ieri sera il presidente Biden ha confermato che “gli Stati Uniti hanno collaborato con la Germania per fermare Nord Stream 2“. Biden ha avvertito che “difendere la libertà avrà dei costi, dobbiamo essere onesti su questo”. Costi a carico quasi interamente dei Paesi europei, vero, ma d’altra parte loro stessi si sono messi nelle mani di Putin…

Ecco, dunque, che sulla sospensione del processo autorizzativo del nuovo gasdotto c’è la firma di Washington. Non è stata una decisione presa in completa autonomia dal governo tedesco, ma l’applicazione di un patto informale tra Washington e Berlino, siglato quando l’amministrazione Biden, la scorsa primavera, aveva dato il suo sostanziale via libera al gasdotto, rinunciando ad applicare le sanzioni per evitarne il completamento e la messa in opera:

“Se la Russia tentasse di utilizzare l’energia come arma o commettesse altri atti aggressivi contro l’Ucraina, la Germania agirà a livello nazionale e spingerà per misure efficaci a livello europeo, comprese sanzioni, che limitino le capacità di esportazione russe nel settore energetico”.

Una delle principali preoccupazioni legate a Nord Stream 2 è che permetterebbe al gas russo di raggiungere direttamente la Germania bypassando l’Ucraina, lasciando il Paese completamente privo di leve negoziali rispetto alla Russia. Ora, con il Donbass occupato, e l’intero Paese che rischia di precipitare nel caos di una guerra, i gasdotti che trasportano il gas russo in Europa attraverso l’Ucraina (non pochi come si vede dalla mappa del Wall Street Journal) diventano punti critici e potrebbero addirittura fermarsi, che ciò appaia o meno come la volontà del Cremlino.

Come riporta il WSJ, Yuriy Vitrenko, amministratore delegato della compagnia statale ucraina del gas, Naftogaz, ha affermato nelle settimane precedenti la mobilitazione delle truppe di Mosca che il governo dovrà probabilmente chiudere parti o addirittura tutta la rete per motivi di sicurezza se scoppiassero le ostilità. In una zona di guerra, i tubi del gas ad alta pressione potrebbero causare esplosioni che distruggono intere città, ha affermato in un’intervista.

E questo senza considerare possibili azioni da parte russa, sui gasdotti ucraini o su quello in Bielorussia (Yamal). L’invasione infatti dà a Mosca anche la possibilità di chiudere o restringere i rubinetti del gas in Ucraina, magari accusando Kiev del sabotaggio, per costringere Berlino ad aprire il Nord Stream 2.

Se c’è chi pensa che la sospensione dell’autorizzazione del gasdotto, e il suo eventuale sblocco, possano essere la “chiave” per ricondurre Putin alla ragione, l’altra possibilità è che, al contrario, in una escalation sul gas siano la Germania, e l’Ue con essa, a capitolare, concedendo l’apertura del Nord Stream 2 e l’Ucraina a Mosca, pur di allentare il cappio energetico che Putin potrebbe decidere di stringere. Nella nuova architettura di sicurezza europea che ha in testa Putin, infatti, non c’è solo l’Ucraina come protettorato russo, ma anche Nord Stream 2 come strumento di influenza energetica e politica sull’Europa.

L’industria tedesca è pesantemente dipendente dal gas russo, e lo sarà ancor di più con il Paese in uscita sia dal nucleare che dal carbone, così come è dipendente dalle esportazioni in particolare di macchinari verso la Russia. Solo per l’annuncio su Nord Stream 2, nonostante comunque la certificazione del gasdotto non fosse attesa a breve dai mercati, il prezzo del gas in Europa è salito dell’11 per cento, fino a 80,58 euro a megawattora.

Immaginiamo dunque che ciò accada: che succede se in caso di crisi energetica, dovuta ad una interruzione del flusso di gas russo, le riserve e il gas liquefatto non bastano a compensarlo? Tra il rischio blackout o intollerabili costi economici e politici da una parte, e il Nord Stream 2 pronto e vuoto dall’altra, Berlino e Bruxelles si vedrebbero costrette a scegliere il secondo (“l’Europa non può restare senza gas”). Come la prenderebbero a Washington? E che significato avrebbe dal punto di vista geopolitico? In questo caso, avrà avuto ragione Trump nel vedere la Germania “totally controlled by, and captive to Russia”.

Il completamento e l’entrata in funzione del Nord Stream 2 – contro il parere Usa e nel mezzo di un conflitto con la Russia – rappresenterebbe un salto di qualità nel processo di sganciamento della Germania dall’alleato americano, quasi una dichiarazione di indipendenza strategica di Berlino e dell’Ue. Oltre all’Ucraina, gli Stati Uniti avrebbero perso anche la Germania, e l’Europa continentale, costrette ormai dalla loro dipendenza energetica dalla Russia ad una posizione di neutralità de facto – pur sopravvivendo la Nato.

Ecco il guaio in cui ci siamo infilati permettendo alla Germania di condurre le politiche energetiche dell’Ue, sia con la scelta di affidarsi alla Russia per la fornitura di gas, sia con gli obiettivi del pacchetto climatico Fit 55 per ridurre le emissioni. Una politica energetica in linea con la storica Ostpolitik tedesca, ma contraria ai nostri interessi, e funzionale al disegno coltivato a Berlino (e Parigi) di autonomia strategica, che in termini pratici, non essendo in grado di garantire la nostra sicurezza con le nostre forze (e risorse), significa sganciarsi dall’orbita Usa per finire vassalli di Cina e Russia.

Torniamo così ad un tema che abbiamo più volte affrontato qui su Atlantico Quotidianoal cuore della questione tedesca: la Germania come “minaccia pacifista”, principale fattore di instabilità dell’Europa.

Ed ecco il guaio in cui si sono infilati gli americani quando l’amministrazione Obama ha dato il suo sostanziale nulla osta al raddoppio del Nord Stream e lasciato mani troppe libere alla Germania nella guida dell’Europa per potersi concentrare sull’Indo-Pacifico. Il peggior incubo, agli occhi di Washington (e non solo): vedere saldarsi gli interessi tra la potenza sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e quella sconfitta nella Guerra Fredda e vederle tornare egemoni sul continente europeo.

Lo scenario peggiore descritto da Henry Kissinger qualche anno fa, commentando l’incontro Trump-Putin: l’Europa “un appendice dell’Eurasia”, alla mercé di una Cina che vuole restaurare il suo storico ruolo di “Regno di Mezzo”. L’America un’isola geopolitica, protetta da due enormi oceani ma senza un ordine basato su regole cui sostenersi.

In un’intervista a La Repubblica il politologo Francis Fukuyama ha ricordato ieri una grande verità, che tutti sanno, pochi ammettono, ma dalle gravi conseguenze. Fu un errore nel 2008 promettere all’Ucraina l’ingresso nella Nato? Fukuyama risponde che all’epoca era contrario, non perché Kiev non ne avesse diritto, ma perché consapevole che “non c’era modo per noi di difendere Georgia e Ucraina, quindi non era saggio farlo. Ma nessuno ha mai pensato che Kiev sarebbe entrata. Dire che poteva unirsi era un modo di compensarla e allontanarla”.

Poi, aggiunge, Kiev è “il fronte della lotta globale per la democrazia”. Però, Washington non ha mai avuto intenzione di difendere quel fronte. In poche parole, ci sta dicendo che l’Ucraina è stata usata dalle amministrazioni Usa – Obama prima e Biden ora – per mantenere sotto pressione la Russia e fare in modo che l’Europa non finisse completamente nella trappola del gas russo.

Nel 2008 si poteva decidere di far entrare l’Ucraina nella Nato, oppure chiuderle le porte e impegnarsi a trovare un punto di equilibrio con Mosca – Kiev come “ponte” tra l’Occidente e la Russia, come suggeriva Henry Kissinger, non come “un avamposto” di una parte contro l’altra. Averla tenuta a metà strada è una ipocrisia che costerà carissimo innanzitutto agli ucraini e rischia comunque di non bastare a salvare l’Europa.

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