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Guyana

Vi spiego tutti gli affari di Cina e Russia con il Venezuela di Maduro

L'analisi di Carlo Jean

Non si vede via d’uscita dalla crisi nel Venezuela. La cosa potrebbe anche non interessarci, se non vi vivessero molti immigrati italiani e i loro discendenti. Il governo italiano “giallo-verde” non ha perso l’occasione per fare l’ennesima brutta figura. Si è dissociato dalle grandi democrazie atlantiche e da tutti i paesi del Sud America – eccetto la Bolivia – nel riconoscere l’autoproclamatosi “presidente ad interim”, Juan Guaidò, presidente dell’Assemblea Nazionale, al posto del dittatore “chavista”, Nicholas Maduro, rieletto presidente nel maggio scorso con elezioni scandalosamente “taroccate”. Il motivo fondamentale di tale “flop” della politica estera italiana, consiste in una certa affinità elettiva del movimento 5s con il “chavismo”, movimento con cui il carismatico ex-presidente Chavez si proponeva di combattere le forti diseguaglianze economiche e sociali e lo sfruttamento delle lobbies multinazionali nell’intera America Latina. L’attacco al preteso lobbismo è stato, per inciso, recentemente ribadito dal nostro premier Conte nella sua sfortunata visita al Parlamento europeo.

Tale programma lo aveva indotto a sfruttare le ricchezze petrolifere del Venezuela per finanziare con il PETROCARIBE gli Stati più contrari alle ingerenze degli Usa e a costituire con tali Stati l’ALBA, Alleanza Bolivariana dell’America meridionale e caraibica. Il programma di Chavez è stato permesso dagli alti prezzi del petrolio d’inizio secolo. Aveva ottenuto il sostegno internazionale della Russia, della Cina e dell’Iran. La prima aveva effettuato consistenti investimenti; la seconda concesso miliardi di dollari di prestiti; il terzo sostenne il Venezuela in odio agli Usa.

Al crollo dei prezzi del petrolio, a partire dal 2014, un anno dopo la scomparsa di Chavez e l’avvento di Maduro alla presidenza del Venezuela, si aggiunse una disastrosa gestione delle riserve petrolifere, che ha provocato anche il danneggiamento irreversibile di molti giacimenti. La produzione dell’“oro nero” scese da quasi 3 milioni di barili al giorno a poco più di 1,15 milioni e sta ulteriormente diminuendo. Si valuta che nel 2020 non supererà i 900.000 b/g. E’ un caso classico della vulnerabilità dei “petrostati”, di quello cioè che gli economisti chiamano il “Dutch Disease”. L’economia non è stata diversificata. Oggi mancano viveri, medicinali e anche i carburanti.

Il regime si regge con la repressione di qualsiasi opposizione. Deve rimborsare Cina e Russia dei prestiti ricevuti. Il Pil è calato nell’ultimo anno del 35%. Il tasso d’inflazione supera annualmente il milione. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite nei paesi vicini, impoverendo lo stock di capitale umano del paese. Le sanzioni, soprattutto statunitensi, sono state mirate contro esponenti del regime e non possono essere intensificate, per non affamare del tutto la popolazione, consentendo a Maduro di attribuire agli Usa la responsabilità dei guai del paese. La repressione ha già provocato centinaia di vittime. Maduro è stato rieletto nel maggio scorso con elezioni nettamente “taroccate”. Ha cercato di neutralizzare quanto resta delle vecchie istituzioni democratiche, depotenziando l’Assemblea Nazionale, vinta dall’opposizione nel 2015, diminuendo ulteriormente l’indipendenza della stampa e della magistratura ponendo sotto controllo e attribuendo maggiori poteri all’Assemblea Nazionale Costituente, dominata da suoi fedeli. Da valutazioni indipendenti, il potere di Maduro si basa sul sostegno di circa un quinto della popolazione e soprattutto di militari, favoriti economicamente e socialmente in ogni possibile modo. Dominano le amministrazioni delle 23 province su cui è diviso il paese e sulle principali imprese, in particolare su quelle petrolifere, che forniscono il 98% delle esportazioni.

Il Venezuela era, fino all’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo, il paese sudamericano più ricco. La democrazia sembrava solida. Le prospettive economiche erano giudicate brillanti, poiché possiede le più consistenti riserve mondiali di petrolio, superiori anche a quelle dell’Arabia Saudita. Dopo il secondo conflitto mondiale ha attirato un consistente flusso immigratorio, anche di elementi tecnicamente qualificati. Il crollo negli anni ’80 del prezzo del petrolio, da cui dipendeva eccessivamente, ne ha causato una profonda crisi che da economica si è rapidamente trasformata in sociale e politica. Con la scusa di combattere diseguaglianze e povertà, la democrazia si è rapidamente trasformata in una dittatura, sempre più totalitaria, corrotta e legata anche al narcotraffico.

La situazione si è sempre più aggravata e il dissenso è sempre più duramente represso. Il regime si regge sui militari non tanto dell’Esercito, che dispone solo di 63.000 effettivi e che è basato su un servizio obbligatorio selettivo, quindi poco sicuro politicamente, quanto della polizia. Essa comprende due corpi: la Guardia Nazionale o Fuerzas National de Cooperation che, con i suoi 23.000 effettivi, provvede al controllo delle frontiere e concorre alla sicurezza interna. Invece, la Milizia Nazionale Bolivariana dispone di ben 150.000 effettivi. I suoi generali occupano i posti meglio remunerati e di responsabilità, sia amministrativi che nelle industrie statali. A loro è diretta la gran parte delle risorse statali. Si è consolidato, quindi, un vero e proprio regime, rafforzato dal timore dei suoi componenti non solo di perdere i loro privilegi, ma anche di subire le vendette del popolo. L’assenza di alternative non dipende solo dalla frammentazione, durata sinora, dell’opposizione, ma anche dai circa tre milioni di venezuelani che per sfuggire a fame e a repressione si sono rifugiati all’estero dall’inizio delle prime rivolte e proteste, a metà del 2017. Tra essi molti sono i tecnici petroliferi. Il loro mancato ritorno dall’estero renderà difficile una rapida ripresa della produzione petrolifera, linfa vitale di qualsiasi nuovo assetto istituzionale.

(1.continua; la seconda parte sarà pubblicata domani)

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