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Giorgetti

Tutte le storielle di Luigi Di Maio

Le ultime sortite di Luigi Di Maio e Fatto Quotidiano su referendum e dintorni

Questa, poi, di difendere il “bicameralismo perfetto”, dimagrito di 345 seggi dai 645 elettivi quanti ne trovò arrivando a Montecitorio nel 2013, diventandone uno dei vice presidenti e scalando così il movimento grillino sino a diventarne il “capo”, l’abbronzatissimo Luigi Di Maio se la poteva risparmiare. Un po’ come lo strafalcione del generale Augusto Pinochet dittatore del Venezuela e non del Cile, o del nome storpiato al presidente della Cina per abbreviarlo, giusto per citare due errori o infortuni commessi per lo stesso motivo per il quale il ministro degli Esteri, già vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, si è messo a difendere il bicameralismo perfetto dopo avere scomodato dalla tomba la povera Nilde Jotti per farne la madrina del taglio dei seggi parlamentari sottoposto a referendum. Il giovanotto -non se l’abbia a male- ha studiato e studia poco almeno alcuni dei problemi di cui si occupa.

E’ vero. Nilde Jotti, la giustamente indimenticata deputata comunista dell’Assemblea Costituente, dove si legò anche sentimentalmente al segretario del partito Palmiro Togliatti, efficientissima e unanimemente apprezzata presidente della Camera, presidente di una delle commissioni bicamerali impegnatesi in una riforma non occasionale ma organica della Costituzione dopo decenni di applicazione rivelatori anche dei difetti, e non solo dei pregi, proprio insediandosi al vertice di Montecitorio nel 1979 sorprese anche il suo partito, un po’ troppo conservatore nel campo istituzionale, parlando del numero eccessivo dei parlamentari italiani. Ma lo fece senza sbandierare sagome e forbici, come avrebbe fatto dopo molti anni davanti al portone di Montecitorio Di Maio. Lo fece parlando nel contesto di una riforma ben più ampia della Costituzione e del Parlamento denunciando i danni sperimentati dalla sovrapposizione e ripetitività di due Camere aventi le stesse funzioni.

Altro che la storia raccontata da Di Maio al Corriere della Sera, della “superficialità” del tentativo di “scaricare ingiustamente” sul sistema istituzionale”, compresa “l’assoluta parità tra Camera e Senato nel procedimento legislativo sancita dall’articolo 72 della Costituzione, le inefficienze di una classe politica frammentata”. Che pertanto diventerebbe d’incanto efficiente e non frammentata disponendo di 600 seggi parlamentari elettivi anziché 945: elettivi, poi, per modo di dire perché, abolita anche la preferenza unica voluta dagli elettori nel referendum del 1991 contro le preferenze plurime, e bloccando ormai a doppia mandata le liste dei candidati, i seggi sono in realtà nella disponibilità delle segreterie dei partiti o dei movimenti, come preferiscono chiamarsi quelli che si sentono più dotati e innovativi. E, ridotti, sarebbero ancora più controllabili e disciplinati.

Bisognerebbe cominciare a chiedersi sino a quando Di Maio e i grillini, sostenuti dalle campagne del Fatto Quotidiano, continueranno ad abusare, con le loro improvvisazioni, della nostra pazienza, come chiese ai suoi tempi Marco Tullio Cicerone a Lucio Sergio Catilina. Intanto essi incassano il no referendario ai tagli parlamentari anche di Romano Prodi: un falso “voltagabbana”, per stare al linguaggio del Fatto, non avendo egli votato la sforbiciata nel Parlamento di cui non fa parte.

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