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Tutte le incognite del Recovery Fund

Recovery Fund: numeri ballerini, obiettivi, ottimismi eccessivi e incognite. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

A proposito di sussidi e prestiti che arriveranno all’Italia con il Recovery Fund, sono bastati pochi giorni per far cambiare il modo verbale da indicativo a condizionale. Il titolo della tabella del Corriere della Sera (“Le stime di Palazzo Chigi”), era ieri prudentemente accompagnato da un “così dovrebbero essere suddivisi gli aiuti del Recovery Fund”. Già dal momento della pubblicazione della prima proposta della Commissione il 27 maggio, ci siamo sforzati di far capire ai lettori le mille incognite, sia finanziarie che giuridiche, che si annidano dentro le 67 pagine vergate dai leader europei all’alba del 21 luglio. Da qualche giorno, queste perplessità cominciano ad essere timidamente condivise.

Emblematico il lavoro dell’economista Szolt Darvas pubblicato il 23 luglio dal prestigioso think tank belga Bruegel, un sancta sanctorum degli economisti mainstream, il cui nome è frutto di un’idea di Mario Monti. L’economista ungherese, già lo scorso 17 giugno aveva analizzato la proposta della Commissione del 27 maggio, giungendo ad attribuire all’Italia sussidi per 85,9 miliardi. Nello studio del 23, dall’eloquente titolo “Mangiare la torta, ma tagliarla in modo diverso”, Darvas si concentra sulla variazione intervenuta nella torta dei sussidi, scesi da 500 a 390 miliardi, dopo il Consiglio del 21.

Il confronto tra le due situazioni è ricco di sorprese. Infatti i punti A15 ed A16 di quell’accordo politico sono intervenuti a cambiare la ripartizione dei sussidi, stabilendo che il 70% del Recovery Resilience Fund (il cui importo totale è pari a 312,5 miliardi) dovrà essere impegnato nel 2021-2022 in base ai criteri già proposti dalla Commissione. Il restante 30% dovrà essere impegnato nel 2023 e ripartito sostituendo uno dei precedenti criteri (il tasso di disoccupazione) con una media della perdita di PIL registrata nel 2020 e nel 2020-2021. Ma questo lo sapremo solo a metà 2022. Oggi possiamo solo eseguire delle stime.

Accade però che, mentre il tasso di disoccupazione è espresso in percentuale e quindi prescinde dalle dimensioni dello Stato, la perdita del PIL è un valore che dipende invece molto dalla dimensione. Più grande è lo Stato, maggiore è la perdita di PIL in valore assoluto. Tenendo come riferimento il PIL previsto dalla Commissione, Darvas ha calcolato che i nuovi criteri toglieranno molto ai Paesi più piccoli (Polonia, Grecia, Romania) e daranno molto ai Paesi più grandi cioè Germania (+14 miliardi!) e Francia (+7 miliardi), ma, incredibilmente, sottrarranno all’Italia circa 1 miliardo e ben 9 miliardi alla Spagna. Così si spiega anche la pressione esercitata dalla Germania per la conclusione positiva del negoziato. C’è da finanziare la sua transizione ecologica già pronta e 14 miliardi di maggiori contributi non sono proprio da gettar via.

Si potrà molto discutere di queste stime, ma il punto è che, fino a quando non sarà presentato il Recovery Plan e non saranno presentati e finanziati i progetti, qualsiasi numero sui sussidi spettanti all’Italia sarà frutto di una mera stima e congettura e come tale dovrà essere presentato. Su questo punto è stato molto chiaro anche il Financial Times: gli unici dati ufficiali sulle somme che arriveranno agli Stati sono solo quelli della Commissione, che finora non ne ha pubblicati. I dati che circolano sono solo stime degli Stati membri beneficiari. La realtà dei tiraggi effettivi di quelle misure rischia di essere ben diversa da quelle stime.

Ma vi è di più. Secondo Darvas, i 500 miliardi di sussidi proposti dalla Commissione comprendevano anche ben 18 miliardi di garanzie a favore dell’Italia, ridottisi drasticamente a soli 2 miliardi.

Riguardo ai presunti 127 miliardi di prestiti, la tabella del Corriere della Sera è basata sul presupposto che ben 10 Stati su 27 non li richiedano e che quindi 17 Stati si dividano 360 miliardi, con l’Italia a fare la parte del leone. Ci appare una eccessiva professione di ottimismo, soprattutto considerando la difficoltà dell’Italia nello spendere i circa 10 miliardi che mediamente ogni anno la UE ci restituisce, prelevandoli dai nostri contributi. All’improvviso dovremmo essere capace di spenderne poco più di 80 in 3 anni oltre a 127 miliardi di prestiti? Il collo di bottiglia delle raccomandazioni Paese e del vincolo di destinazione della spesa (30% per affrontare il cambiamento climatico) appare decisivo.

Un altro aspetto che mina alle fondamenta il trionfalismo di questi giorni è iI criterio, tuttora indeterminato, secondo cui nel bilancio UE saranno coperti quei sussidi. Oggi, contrariamente a quanto affermato da alcuni commentatori, nessun contributo aggiuntivo sarà versato dagli Stati membri. Il solo dato certo è che i sussidi saranno coperti da imposte su imprese e cittadini europei a partire dal 2026 fino al 2058. A questo fine è stata aumentata, dal 1,2% al 2% del Reddito nazionale Lordo (GNI), la capacità del bilancio UE. Questo vuol dire che, a semplice richiesta, la Commissione ha già il potere di richiamare risorse, sia come tasse proprie che come contributi dagli Stati membri, per coprire il rimborso delle obbligazioni emesse per finanziare il Recovery Fund. Come tali imposte saranno distribuite tra i contribuenti dei diversi Stati sarà la chiave di volta per capire chi riceverà un reale impulso alla crescita e chi continuerà a stagnare. Quale sarà l’impatto sull’Italia? Il concreto effetto recessivo del rispetto delle raccomandazioni Paese (Patto di stabilità incluso) è forse l’aspetto più sottovalutato per l’Italia. Su questo registriamo l’ammissione del Commissario Ue Paolo Gentiloni, il cui “non possiamo sbagliare i tempi di riattivazione del Patto, non possiamo rischiare una doppia recessione”, appare una voce dal sen fuggita che però rivela la pericolosità delle stringenti condizioni a cui saremo sottoposti. Potremo intestare il conto della recessione indotta da tali condizioni a chi ci ha infilato in questo ginepraio? La conseguente compressione di ogni spazio di scelta democratica nel nostro Paese è un costo che si intende far pagare al nostro Paese senza alcuna riflessione aggiuntiva? Si è consapevoli che, con quelle raccomandazioni, si attiva un definitivo pilota automatico nelle decisioni di politica economica, e non solo, dell’Italia?

Un altro argomento che non regge è quello che le somme provenienti da Bruxelles alleggeriranno la pressione sull’emissione di titoli pubblici. Non sarà così, per il semplice motivo che quelle somme sono destinate a finanziare fabbisogni aggiuntivi rispetto a quelli attualmente previsti. Il transito verso fonti di energia come l’idrogeno o il trattamento dei rifiuti sono capitoli di spesa oggi non previsti.

Probabilmente, tra qualche anno, o anche prima, rideremo amaramente nel rivedere quella prima pagina di un giornale che raffigurava il Presidente Conte, novello Signor Bonaventura, tornare da Bruxelles con un assegno da 209 miliardi sotto braccio. Potremmo scoprire che l’assegno era scoperto.

(versione integrata dell’articolo pubblicato sul quotidiano La Verità il 25 luglio 2020)

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