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Tutte le fake news su Craxi

Il libro "Le fake news su Bettino Craxi" (Edizioni Solfanelli) di Nicola Scalzini e Roberto Giuliano letto da Paola Sacchi

Bettino Craxi, lo statista socialista, che, secondo una leggenda metropolitana — forse la madre di tutte le fake news in politica — avrebbe scassato i conti pubblici in Italia, facendo schizzare in modo irrimediabile il debito pubblico, lasciò il suo governo con risultati tali che persino l’arcinemico Eugenio Scalfari dovette ammettere. E il settimanale americano Newsweek elogiò “il sorprendente vigore del Primo Ministro” che in pochi anni, 1983-1987 con quel governo, il più longevo della cosiddetta Prima Repubblica, fece uscire l’Italia da una situazione drammatica, con tutti i conti fuori posto, quale era il nostro Paese nei primissimi anni 80.

Autorevole riconoscimento dallo stesso governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi: “Si è potuto ridurre l’inflazione, senza compromettere la ripresa produttiva”. Le agenzie di rating, considerando il debito sostenibile e tenendo conto di tutti i buoni indicatori, dettero la tripla A, che mai più rivedemmo, al governo, architrave di quell’Italia, quinta potenza industriale, che superò la stessa Inghilterra per Pil.

Numeri e non chiacchiere, documentazione storica, tabelle a corredo, ci sono nel bel libro, uscito in questi giorni, di Nicola Scalzini e Roberto Giuliano, con prefazione e introduzione di Stefano Parisi e Renato Brunetta, dal titolo “Le fake news su Bettino Craxi” (Edizioni Solfanelli). Scalzini, economista, ex responsabile della politica di Bilancio e Finanza pubblica del governo Craxi, Giuliano, laureato in sociologia, ex sindacalista socialista Cgil, che fu a capo della strategica categoria degli edili di Roma e del Lazio, e visse in prima persona i drammatici giorni degli attacchi, anche fisici, dei “compagni” comunisti contro il decreto di S. Valentino — quando la x di Craxi venne persino raffigurata nelle piazze a mo’ di svastica — ci squadernano i risultati.

Ecco le cifre che quell’esecutivo lasciò: “Nel 1987, quando Craxi si dimise da Palazzo Chigi, il Paese era in piena riscossa economica: inflazione dal 17,7 % al 4,6%; rapporto deficit/Pil dal 16,7% al 12,6%; pressione fiscale dal 37, 5 al 35%; Pil da 765 a 890 miliardi”, sintetizza Brunetta, che a 34 anni di quel governo fu consigliere economico, come lo stesso Parisi. Quanto al debito pubblico, “la leggenda metropolitana”, ricordano Scalzini e Giuliano, fece una strana somma, in base alla quale “a Craxi fu attribuito il debito anche dei governi successivi al suo, fino al 1992”.

Governi  che, dopo la traumatica interruzione dei due Gabinetti Craxi, da parte del segretario Dc Ciriaco De Mita, in nome del cosiddetto patto della staffetta, secondo gli autori, non seppero utilizzare l’ottimo lavoro di Craxi, stabilizzandolo e migliorandolo. E ripresero a far crescere la spesa pubblica, il tutto “perché la Dc di De Mita si spaventò e ebbe paura di essere oscurata da quei brillanti risultati”.

Gli autori distinguono tra Dc di sinistra e Dc di destra. Di quei risultati poi lo stesso De Mita dette atto a Craxi. Il quale, tra l’altro, “impedì la svendita della Sme voluta da Romano Prodi, presidente dell’Iri“. Si arrivò alla crisi economica dei primi anni 90, quando il secondo boom italiano presto svanì.

Certamente il governo Craxi fu anche aiutato in parte da una buona congiuntura internazionale, ma, come osservano Scalzini e Giuliano, abbiamo visto all’opera altri esecutivi che non seppero sfruttare le medesime occasioni.

Il decreto di S. Valentino, con il taglio di tre punti di scatto di scala mobile, in linea con una sistematica politica economica di abbattimento di tutte le indicizzazioni, che producevano anche appiattimento salariale, fu l’atto determinante di quel governo, composto da personalità come Andreotti, Visentini, De Michelis, Spadolini, Amato, Forlani, Fortuna, Scalfaro, Martinazzoli, Zanone, Zamberletti. Lo stesso esecutivo, giudicato dal Pci di Berlinguer “nemico del popolo”, “fascista”, paragonato a quello di Pelloux che sparò sulla folla, fece anche, grazie a De Michelis ministro del Lavoro, l’innovazione delle tre fasce per reddito nelle prestazioni sociali, favorendo i meno abbienti.

Quanto agli attacchi furibondi dei comunisti (Giuliano però distingue la figura di Luciano Lama che ebbe altro atteggiamento sul decreto del 14 febbraio, pur dicendo alla fine anche lui no), gli autori ricordano un Pierre Carniti un po’ tagliente con Berlinguer, al quale pose il problema delle alleanze se un giorno avesse voluto andare al governo. Il segretario del Pci volle il referendum contro il provvedimento anti-inflattivo di Craxi, che salvò l’Italia. Per il Pci fu una drammatica sconfitta. L’ex premier e leader socialista, di cui quest’anno ricorre il ventennale della morte, è stato descritto come la causa di tutti i nostri mali, “ma è proprio nella negazione di quegli anni la causa dei nostri mali”, ammonisce Stefano Parisi. Che osserva: “Oggi Craxi è più rispettato a destra che a sinistra”.

Ma gli autori invitano anche la destra a non confondere “il sovranismo con la sovranità, che l’internazionalista e europeista (il quale comunque vedeva già allora i problemi dell’Europa e dell’asse dei Paesi del Nord cui pose come contrappeso quello Euromediterraneo ndr) Craxi non invocava”. Ma faceva rispettare, come a Sigonella, “secondo le norme del diritto internazionale”.

Altro monito che viene dal libro è quello si smetterla “di leggere il finanziamento illegale ai partiti, che era un vero sistema per tutti o quasi — Craxi lo denunciò e tutti stettero zitti — come corruzione”. Perché se perde la politica, ecco poi i risultati dei nostri giorni. Tanto più in piena pandemia.

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