Se il Cremlino sembra aver sottovalutato le capacità di resistenza politica e militare di Kiev, e la risposta occidentale, la Casa Bianca sembra stia sottovalutando le conseguenze della guerra economica alla Russia, né averla adeguatamente preparata dal punto di vista diplomatico, nonostante fosse a conoscenza da mesi dei piani di aggressione russi all’Ucraina.
All’amministrazione Usa va senz’altro riconosciuto il merito di una risposta veloce e ambiziosa della Nato e di aver tenuto compatti gli alleati europei, rimettendo in riga Germania e Francia. Risultati nient’affatto scontati, ma non sufficienti viste le implicazioni globali dello scontro in atto.
Uscendo dalla bolla europea sono pochi i Paesi che hanno seguito Usa, Regno Unito e Ue sulla strada delle sanzioni alla Russia. Nemmeno tutti i Paesi Nato vi hanno aderito: la Turchia non ha adottato alcuna sanzione contro Mosca, ma ha almeno fornito agli ucraini i suoi preziosi droni. E nemmeno Israele. Pechino a parte, da cui era prevedibile un sostegno più o meno esplicito a Mosca, come vedremo più avanti al centro delle preoccupazioni di Washington in queste ore, nemmeno il resto dei Brics – India, Brasile e Sudafrica – ha adottato sanzioni, scegliendo una posizione neutrale.
Come ha calcolato la prof. Anna Bono su Atlantico Quotidiano, la risoluzione di condanna dell’aggressione russa all’Assemblea generale Onu è passata a larga maggioranza dei Paesi membri, ma tra contrari, astenuti e assenti, non l’hanno appoggiata Paesi che contano il 55 per cento della popolazione mondiale.
Ma il maggiore fallimento dell’amministrazione Biden è in Medio Oriente. Non è riuscita infatti a ottenere dall’Opec un aumento della produzione petrolifera, che avrebbe contribuito a raffreddare le tensioni sui mercati, alleviando in particolare le sofferenze delle economie del Vecchio Continente, e gli Emirati Arabi Uniti, resistendo alle pressioni Usa, si sono astenuti in Consiglio di sicurezza Onu su una risoluzione di condanna dell’invasione russa. Come riportavamo alcuni giorni fa, durante la crisi ucraina il presidente Biden non è nemmeno riuscito a parlare con i leader di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Salman e Mohammed bin Zayed, che si sono rifiutati di accettare le sue chiamate, mentre hanno parlato più volte sia con Putin che con Zelensky.
Riyad ha invitato il presidente cinese Xi Jinping a visitare il Regno nel mese di maggio e pochi giorni fa, in una intervista, il principe ereditario ha detto che “non gli importa” se il presidente Biden lo ha frainteso e ha avvertito che ridurre gli investimenti sauditi negli Usa, che ammontano a 800 miliardi di dollari, è un’opzione, mentre cresce la cooperazione con la Cina anche in campo militare. Come riportato dal Wall Street Journal, citando consiglieri e funzionari sauditi che hanno familiarità con l’intelligence Usa, l’Arabia Saudita ha importato una tecnologia missilistica sensibile dall’esercito cinese e sta producendo propri missili balistici. “Le alleanze cambiano in Medio Oriente e i partner regionali di Washington cercano nuovi legami economici e di sicurezza”, ha osservato il WSJ.
Non sorprende, dato che la prima cosa che ha fatto l’amministrazione Biden una volta insediata è stata raffreddare i rapporti con le monarchie del Golfo, negargli il sostegno nello Yemen, sospendere forniture militari e rivolgersi di nuovo a Teheran per concludere un nuovo accordo sul suo programma nucleare.
Un altro avvertimento è arrivato ieri, via Wall Street Journal: “L’Arabia Saudita è in trattative con Pechino per prezzare in yuan (la moneta cinese, ndr) alcune delle sue vendite di petrolio alla Cina”. “Una mossa che intaccherebbe il dominio del dollaro Usa sul mercato petrolifero globale e segnerebbe un altro passo verso l’Asia del massimo esportatore di greggio del mondo”. In realtà, ricorda il quotidiano finanziario, i colloqui con Pechino per contratti petroliferi valutati in yuan sono andati avanti e indietro per sei anni, ma quest’anno hanno subito un’accelerazione, perché i sauditi sono sempre più risentiti per il venir meno dei decennali impegni degli Stati Uniti per la sicurezza del Regno: “I sauditi sono irritati per la mancanza di sostegno degli Stati Uniti al loro intervento nella guerra civile nello Yemen e per il tentativo dell’amministrazione Biden di concludere un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare” e “si sono detti scioccati dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan dello scorso anno”.
D’altra parte, i patti erano chiari: niente sicurezza, niente esclusiva del dollaro. Come ricorda il WSJ: “I sauditi scambiano il petrolio esclusivamente in dollari dal 1974, in base ad un accordo con l’amministrazione Nixon che includeva garanzie sulla sicurezza del Regno”.
“La Cina – continua il quotidiano – acquista più del 25 per cento del petrolio esportato dall’Arabia Saudita e, se valutate in yuan, tali vendite aumenterebbero lo status della valuta cinese, portandola sulla strada per diventare una valuta di riserva globale”. Sarebbero così due i top esportatori mondiali di petrolio a trattare in yuan le loro esportazioni verso la Cina: Russia e Arabia Saudita.
Su Atlantico Quotidiano avevamo già delineato i rischi per il “privilegio” del dollaro della sanzione alla Russia che Musso ha chiamato “fine-di-mondo”, ovvero il congelamento delle riserve estere della Banca centrale russa. Non è un qualcosa che possa avvenire dall’oggi al domani, ma il processo di de-dollarizzazione dell’economia globale potrebbe essersi innescato. Come ha spiegato il governatore della Fed, Jerome Powell, al Congresso, il dollaro è valuta di riserva globale “perché abbiamo libera circolazione del capitale in uno stato di diritto e abbiamo l’inflazione sotto controllo su una lunga media temporale. In modo che il dollaro conservi il suo valore e quindi i nostri mercati siano i più liquidi ed è il posto dove le persone vogliono essere”. Insomma, si deve essere un luogo molto attraente per chi deve depositare grandi quantità di riserve e nessuna altra grande economia può avere la libera circolazione del capitale e lo stato di diritto e la bassa inflazione che hanno gli Usa. Ma in qualche misura le sanzioni alla Russia intaccano queste certezze (libera circolazione del capitale, stato di diritto, bassa inflazione), mettendo a rischio lo status di riserva del dollaro: “Lentamente – conclude Musso – il renminbi potrebbe diventare il dollaro di metà del mondo: quella metà che non si fida più della Fed e della Bce che hanno congelato dollari ed euro alla Russia”.
“Il privilegio esorbitante dell’America – l’onnipotente dollaro come principale valuta di riserva mondiale – è minacciato?”, si è chiesto tre giorni fa Andy Kessler del Wall Street Journal, avvertendo che “Cina e Russia potrebbero lavorare per togliere all’America il suo esorbitante privilegio” e che l’America “non dovrebbe rischiare lo status di valuta di riserva del dollaro”.
Il rapporto tra l’amministrazione Biden e Riyad è partito malissimo, con le accuse al principe ereditario per il caso Kashoggi, ma è proseguito peggio: Washington ha rimosso gli Houthi, i ribelli yemeniti che stanno conducendo una guerra per procura di Teheran contro Arabia Saudita ed Emirati, dalla lista delle organizzazioni terroristiche e ignorato i loro attacchi con droni ai due Paesi, tutto per non indispettire gli iraniani e spianare la strada al nuovo accordo sul programma nucleare.
Pur di accordarsi con l’Iran, nel bel mezzo della guerra in Ucraina e della guerra economica alla Russia, l’amministrazione Biden ha offerto a Mosca una scappatoia dalle sanzioni: “Abbiamo avuto garanzie scritte dagli Stati Uniti che le sanzioni non influiranno sulla cooperazione con l’Iran nel settore nucleare, inclusa la centrale di Bushehr. Sono inserite nel testo dell’accordo stesso sulla ripresa del Jcpoa”, ha spiegato il ministro degli esteri russo Lavrov.
A Vladimir Putin concesso “un hub con sede in Iran per evadere le sanzioni”, secondo la Foundation for Defense of Democracies.
La politica dell’amministrazione Biden in Medio Oriente sembra quella di premiare i nemici – Iran e Russia – e punire gli amici, le monarchie del Golfo, che comprensibilmente reagiscono cercando altri alleati per la loro sicurezza, la Cina e la stessa Russia.
Mentre i prezzi delle materie prime abbattono ogni record, la Cina sta cercando di approfittare della guerra in Ucraina e delle difficoltà della Russia sotto sanzioni avvicinando tutti gli esportatori “non occidentali” di materie prime – in primis proprio la Russia – per offrire loro una nuova valuta di riferimento, lo yuan, e detronizzare il dollaro come valuta di riserva globale.
Una coincidenza molto sospetta è intervenuta proprio in queste ore ad ulteriormente stressare le catene di approvvigionamento. Per due anni la Cina ha dichiarato zero decessi Covid e un numero ridicolmente basso di casi. Ora, improvvisamente, oltre 5 mila nuovi casi e la decisione di mandare in lockdown importanti città e snodi chiave delle catene di approvvigionamento che alimentano l’economia occidentale…
L’incontro di ben sette ore, a Roma, tra il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan e il responsabile esteri del Partito comunista cinese Yang Jiechi, nelle intenzioni di Washington serviva a mettere Pechino di fronte alle sue responsabilità. Sul conflitto in Ucraina la Cina ha tenuto finora una posizione ambigua, dichiarandosi per una soluzione diplomatica ma “comprendendo” le ragioni di Putin e non riuscendo a dissimulare l’asse con Mosca, suggellato in mondo visione con l’accordo sul gas siglato alle Olimpiadi invernali di Pechino.
Rivelando agli alleati che la Cina sarebbe pronta a fornire aiuti militari alla Russia, Washington cerca di spingere Pechino ad uscire dalla sua neutralità di facciata, in un senso o nell’altro, avvertendola che nel caso scegliesse l’asse con Mosca troverà un Occidente compatto e si andrà ad uno scontro economico ed ideologico tra democrazie e dittature. Il decoupling e una nuova divisione del mondo in due blocchi, che non riteniamo essere un esito di per sé negativo, a patto che l’Occidente sia pronto ad affrontarlo – ma di questo parleremo in un prossimo articolo.
Ma quale messaggio arriva invece a Pechino dall’accordo con Mosca e Teheran sul nucleare iraniano? Mentre gli Usa avvertono la Cina che ci saranno “significative conseguenze” se aiuta la Russia a eludere le sanzioni, sono gli Usa stessi a consentire ai russi di eluderle.
Il politologo Walter Russell Mead va al cuore del problema:
“L’approccio dell’amministrazione Biden alla great-power diplomacy è completamente fallito. Dopo un anno di tentativi infruttuosi di parcheggiare la Russia o tenerla lontana dalla Cina, sta tentando la stessa strategia al contrario, sperando ora di staccare la Cina dalla Russia. Ma Pechino non aiuterà Biden per bontà d’animo.
Anche la speranza dell’amministrazione Biden di poter perseguire i propri interessi in questioni globali come il disarmo, i diritti umani e il cambiamento climatico, anche quando aumenta la pressione economica e ideologica sulle due maggiori potenze eurasiatiche, si è rivelata illusoria. Tra l’invasione russa dell’Ucraina e il massiccio accumulo di armi nucleari e convenzionali da parte della Cina, le speranze di controllo degli armamenti stanno svanendo. La richiesta della Russia di rivedere l’accordo sul programma nucleare iraniano salvaguardando la sua partecipazione dalle sanzioni relative all’Ucraina sottolinea la difficoltà di affrontare e coinvolgere simultaneamente le potenze revisioniste”.
“L’agenda climatica di Biden è collassata nella totale incoerenza”, scrive ancora WRM, mentre il presidente cerca petrolio e gas in tutto il mondo, corteggiando Maduro e venendo respinto dai sauditi.
Gli effetti delle sanzioni alla Russia “stanno contribuendo ad alimentare l’inflazione dei prezzi delle materie prime aumentando l’incertezza finanziaria. È probabile che il disordine economico restringerà ulteriormente le opzioni dell’amministrazione nei prossimi mesi, minando al contempo la sua posizione politica”.
“La nostra capacità di influenzare il comportamento degli altri dipende molto più dal nostro potere geopolitico che dalla purezza dei nostri cuori e dalla nobiltà dei nostri obiettivi”, conclude Russell Mead. Un monito che riecheggia quello della signora Thatcher: “il nostro modo di vivere, la nostra visione, non è assicurato dalla giustezza della nostra causa, ma dalla forza della nostra difesa”.