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Tutte le carte che può giocare l’Italia in Libia

L’analisi di Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Mediterraneo all’Università Niccolò Cusano e alla Sioi  Mentre impazzano le polemiche sul ruolo della guardia costiera libica e delle Ong nelle attività di soccorso in mare dei migranti, il governo italiano è impegnato a votare il disegno legge che prevede la donazione di 12 motovedette alle autorità…

Mentre impazzano le polemiche sul ruolo della guardia costiera libica e delle Ong nelle attività di soccorso in mare dei migranti, il governo italiano è impegnato a votare il disegno legge che prevede la donazione di 12 motovedette alle autorità di Tripoli. L’obiettivo, si legge nel testo, è quello di “incrementare la capacità operativa degli organi per la sicurezza costiera e del ministero dell’interno libico nelle attività di controllo e di sicurezza, rivolte al contrasto all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani”.

La strategia del ministro dell’interno italiano, Matteo Salvini, è evidentemente finalizzata a rafforzare la collaborazione con gli attori dell’ovest e con il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, per delegare sempre di più alle autorità libiche la gestione della rotta del Mediterraneo centrale. A ben guardare, però, sembra che il governo italiano voglia andare oltre il semplice dossier migratorio per riaprire a una partnership bilaterale con l’ex Jamairyia. Non a caso Salvini, durante la sua prima visita nella capitale libica, aveva prospettato al vice premier, Ahmed Maitig, la riattivazione del trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi. Ipotesi riproposta anche dal ministro degli esteri italiano, Enzo Moavero, al presidente del consiglio presidenziale libico Fayez al-Sarraj.

L’Italia si sta muovendo sulla strada giusta nella spinosa questione migranti? Quale ruolo potrebbe davvero ricoprire nella stabilizzazione del paese?

In primo luogo va sottolineato che il problema della gestione dei flussi migratori non può essere svincolato dalla stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza della Libia. Detta in altri termini, il paese non potrà essere considerato un porto sicuro fintanto che non sarà un paese sicuro. Come sottolineato di recente dal rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamè, “lo status quo in Libia non può più essere mantenuto”. Un’affermazione che mette una pietra tombale sull’iniziativa dello scorso 29 maggio del presidente francese Emmanuel Macron – che, in barba alle Nazioni Unite, aveva proposto una “personalissima” road map per la Libia con elezioni entro fine dicembre – ma soprattutto un monito ad evitare pericolose iniziative unilaterali.

Il percorso di pacificazione del paese deve partire da un dialogo inclusivo tra gli attori locali, supportato dagli organismi internazionali. Da questo punto di vista l’Italia può far valere il rapporto privilegiato con gli attori tripolini per porsi quale interlocutore indispensabile nelle sedi internazionali, anche per mediare un accordo con gli attori dell’est e i loro “sponsor”, Russia in primis. L’apparente comunione di intenti tra Salvini e Maitig, uomo forte di Tripoli e molto più vicino a importanti milizie e gruppi di potere locali di quanto non lo sia Serraj, è un buon inizio.

In questo contesto anche la riattivazione del “Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione” può risultare di grande utilità, per lo meno da un punto di vista formale. Giova fare un passo indietro. L’accordo “originale”, firmato a Bengasi il 30 agosto del 2008 da Muammar Gheddafi e dall’allora primo ministro italiano Silvio Berlusconi, prevedeva importanti vantaggi reciproci.

L’Italia, infatti, si impegnava a versare nelle casse di Tripoli 5 miliardi di dollari – come risarcimento dei danni coloniali – e a finanziare infrastrutture realizzate da imprese italiane. Il colonnello, dal canto suo, aveva ribadito la volontà di impegnarsi a combattere l’immigrazione clandestina. Si trattava, evidentemente, di un passo importante per la normalizzazione delle relazioni bilaterali e soprattutto una garanzia per la primacy italiana nel paese.

Il trattato, seppellito dalle bombe dei nostri “alleati” e in particolare dalla Francia, che ne era particolarmente infastidita, potrebbe realmente essere riattivato? Al di là delle disquisizioni giuridiche sulla sua validità, dopo la partecipazione dell’Italia all’intervento contro il rais, quel che conta rimarcare è che se da un punto di vista sostanziale è difficilmente applicabile nella sua interezza, vista l’assenza di un chiaro potere centrale in Libia, potrebbe comunque essere aggiornato alla rinnovata realtà, magari “riabilitandone” alcune clausole. Sarebbe un passo importante anche per promuovere azioni diplomatiche finalizzate a spingere le autorità libiche ad adeguarsi agli standard internazionali in tema di diritti umani e a combattere più energicamente i network criminali che operano nel proprio territorio. Viceversa, qualunque ipotesi di collaborazione con la Libia rischia di essere inutile.

Il governo italiano, dunque, ha molte carte da giocare per tentare di assurgere a un ruolo di primo piano nel futuro del paese nordafricano e per rinsaldare i rapporti bilaterali. Questo, però, non è sufficiente per pacificare un paese oramai allo sbando. Servirà uno sforzo molto più incisivo della comunità internazionale, fin qui più propensa ad assecondare gli appetiti e gli egoismi dei singoli Stati che a spingerli verso soluzioni condivise per il bene della Libia e del suo popolo.

(analisi pubblicata su www.michelamercuri.it)

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