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Prodi Berlusconi

Le capriole degli anti presidenzialisti che invocano un Quirinale interventista. Il commento di Polillo

Fatti e contraddizioni su presidenza della Repubblica e anti presidenzialisti a sinistra. Il commento di Gianfranco Polillo

La preoccupazione principale dell’attuale maggioranza parlamentare è giungere, quanto meno, al 2022. Uno spartiacque che sarà segnato dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il che significa resistere, almeno, fino a metà del 2021. Poi scatterà il “semestre bianco”, durante il quale, a norma dell’articolo 88 della Costituzione, le Camere non potranno essere sciolte, a meno che questi ultimi 6 mesi (cosa che non avviene) non coincidano con la fine della legislatura.

La spiegazione data per giustificare, un po’ strumentalmente, la loro sopravvivenza è la percezione di un pericolo. Elezioni anticipate – questa la tesi di fondo – potrebbero portare ad un Presidente “sovranista”. Quindi il popolo può attendere, affinché si compia un diverso destino, deciso nelle segrete stanze di un potere impenetrabile. E poco importa se, nel frattempo, una maggioranza frammentata non riesce a mettere insieme il pane con il companatico, lasciando il Paese alla sua inevitabile deriva.

Basterebbero queste osservazioni per smontare un disegno così lacunoso. In politica, come nella vita, si vive giorno dopo giorno. Ed il “non fare” non è senza conseguenza. Lo si è visto chiaramente per il Mose di Venezia, per Alitalia ed Ilva, solo per citare i casi più spinosi. Non è detto che l’Italia possa vivere in questa lunga attesa, con un Governo che non ha alcun orizzonte. Ma è costretto, anche suo malgrado, ad inseguire i sogni identitari dei suoi rissosi maggiorenti: 4.500 emendamenti alla legge di bilancio.

Tutto ciò sta alimentando nel Paese una sorta di paura. Di questa eventuale sciagura si parla in famiglia, nei bar, nelle cene con gli amici. Né sono bastate le rassicuranti affermazioni di esponenti di primo piano della Lega: da Matteo Salvini a Giancarlo Giorgetti. Che non hanno escluso, determinando la reazione negativa di Giorgia Meloni, di poter vedere Mario Draghi, il salvatore dell’euro, approdare sul Colle più alto della Capitale. Segnale evidente. Quando verrà il momento, non saranno richiesti esami del sangue per contare i globuli tricolori del presunto candidato “sovranista”.

Gli aspetti meno edificanti di questa “narrazione” sono evidenti. Consentono alle diverse tifoserie di dominare la scena. Allontano nel tempo la ricerca di quell’equilibrio politico ed istituzionale cui sono legate le sorti dell’intero Paese. Come se uscire da questa lunga crisi fosse possibile seminando ulteriori divisioni. Le quali – questo l’aspetto più grave – sono costruite sul nulla ed in aperta contraddizione con le più elementari caratteristiche della nostra Costituzione.

Va quindi ricordato che la nostra è una Repubblica parlamentare, in cui il Presidente della Repubblica non è responsabile dell’indirizzo di governo. Egli è un arbitro, non un giocatore: come Sergio Mattarella, nella sua azione pedagogica, si sforza di ripetere. Certo, in passato, almeno dai tempi di Oscar Luigi Scalfaro, ma subito dopo c’è stato Carlo Azeglio Ciampi, le linee di demarcazione non sono state così nette. Ma questo è dipeso da circostanze diverse.

Ha pesato indubbiamente la personalità dei singoli Presidenti. Scalfaro era un magistrato. E sappiamo, oggi, quale sia la cultura di una parte almeno della magistratura. Il suo protagonismo che, spesso, l’ha portata a confondere ruoli e funzioni. A volte queste diversità sono state amplificate dalla stampa. E’ di pochi giorni fa un articolo di Libero che accusa Mattarella di aver voluto commissariare il Presidente del consiglio, spronandolo ad agire sui dossier più caldi della situazione italiana. Ma essere arbitro non significa non richiamare i giocatori, quando nel gioco si mira soprattutto a perdere tempo, in difesa del risultato conseguito.

Ma la figura del Presidente della repubblica diventa rilevante soprattutto quando il sistema politico entra in crisi. Lo si è visto con Giorgio Napolitano: alle prese con una situazione di impasse dovuta a quella sorta di “guerra civile”, combattuta, per fortuna, con mezzi non violenti, che si è trascinata dal 1993 in poi. A seguito della discesa in campo di Silvio Berlusconi, contro l’ipotesi di Achille Occhetto e la sua “gioiosa macchina da guerra”. Fase che, almeno così si spera, possa essere, prima o poi superata, abbandonando, come insegna il Vangelo, la ricerca della pagliuzza nell’occhio del proprio avversario, che fa dimenticare la trave che oscura la propria vista.

Ma c’è di più. Se si insiste nell’attribuire al Presidente della Repubblica un ruolo politico, sia positivo o negativo, a seconda dei punti di vista, non solo si scava sotto l’impalcatura costituzionale. Ma si alimentano altre aspettative. Seppure in modo inconsapevole, si porta acqua al mulino di chi ne ipotizza l’elezione diretta, da parte del popolo. Che porterebbe ad un approdo verso il presidenzialismo. Solo in questo modo gli si potrebbero attribuire quei poteri, che oggi non possiede, ma che la sinistra teme siano solo caratteristiche di un Presidente “sovranista”. Elemento ritornante. Basti ricordare il duro scontro tra Achille Occhetto e Francesco Cossiga, fino alla minaccia dell’impeachment. Suggestione reiterata dallo stesso Luigi Di Maio nei confronti di Sergio Mattarella, nei momenti più caldi della crisi del maggio 2018.

Personalmente non abbiamo nessun pregiudizio rispetto al presidenzialismo. Una forma di Repubblica democratica. Tutto dipende da come si potrebbero articolari gli altri poteri, all’insegna del pluralismo istituzionale e del sistema di “check and balance”, che caratterizza tutte le grandi democrazie occidentali, che quella formula stanno sperimentando. Ma come la mettiamo con i teorici, in Italia, della “Costituzione più bella del mondo” che albergano nelle schiere della sinistra? Please: un po’ di coerenza.

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