Sta accadendo di nuovo. Dalla sottovalutazione iniziale, che ha portato il governo a rifiutare la misura di buon senso dell’isolamento di chi, di qualunque nazionalità, tornasse dalla Cina e a buttarla, invece, sul razzismo, dalle campagne “abbraccia un cinese” alle foto “mangia un involtino”, siamo passati all’allarmismo, chiusure a casaccio, sovraesposizione mediatica del premier dal bunker della Protezione civile. Da qualche ora, preoccupati dell’immagine da lazzaretto del nostro Paese all’estero (anche troppo, come vedremo) e dei danni economici, siamo tornati al punto di partenza: non la sottovalutazione, ma addirittura siamo alla “ripartenza”, bisogna far ripartire e riaprire il Paese, come se il momento più critico dell’epidemia fosse alle spalle, dopo solo una settimana. Le montagne russe, insomma.
Quale credibilità possono avere presso l’opinione pubblica messaggi così altalenanti, una gestione della comunicazione – sia della politica che dei media mainstream, va detto – così schizofrenica e frastagliata? Dati e fatti anche dall’estero ci dicono che purtroppo non è così: in Europa siamo solo all’inizio – e proprio nei giorni decisivi in cui ci giochiamo le possibilità di contenere l’epidemia.
Il problema resta sempre lo stesso, quello che abbiamo dall’inizio sottolineato su Atlantico, supportati da studi e pareri scientifici: non tanto l’aggressività del nuovo coronavirus in sé, ma il rischio di collasso dei sistemi sanitari per l’alto numero di terapie intensive che sarebbero necessarie se si ammalassero troppe persone in una ristretta finestra temporale.
Tra il “tutti barricati in casa” a “tutti al bar gomito a gomito per l’aperitivo”, o allo stadio, per dimostrare che “Milano non si ferma”, c’è, ci deve essere, una via di mezzo ragionevole. Non chiusure indiscriminate e a macchia di leopardo, ovviamente, salvaguardare soprattutto la continuità delle attività produttive, ma in questo periodo sarebbe prudente ridurre la socialità non necessaria, soprattutto se si hanno sintomi anche lievi. E probabilmente molti italiani stanno già mettendo in atto intuitivamente queste minime precauzioni fai da te, rinviando uscite e attività non necessarie.
L’errore da non commettere, che potrebbe risultare fatale, è porre economia e salute in contrapposizione, come se si trattasse di scegliere una e sacrificare l’altra… Sarà difficile trovare un punto d’equilibrio, per tutti i Paesi occidentali, ma se passa la tentazione di sacrificare la salute, scommettendo che tanto si tratta della salute di pochi vecchi, per salvare l’economia, il rischio è di perdere entrambe.
Una catastrofe sanitaria porterebbe con sé certamente anche una catastrofe economica. Accettare di rallentare le attività, perdere qualche volume d’affari oggi, come peraltro sta già accadendo a prescindere dalle misure di contenimento e dalla nostra volontà, può assicurarci di evitare la catastrofe e poter ripartire velocemente tra poche settimane. Fermarsi, o meglio rallentare, non vuol dire arrendersi.
Secondo il professor Massimo Galli, infettivologo dell’Università di Milano e primario dell’Ospedale Sacco, “non c’è stato un incremento di casi dovuto a infezioni recenti: siamo in una situazione in cui si sta registrando quanto è avvenuto alcune settimane prima che venisse identificato il primo caso”. L’ipotesi è che il coronavirus “abbia girato sotto traccia nella zona rossa per un periodo piuttosto lungo e potenzialmente da metà gennaio”, o anche prima. Uno studio italiano firmato da scienziati dell’Università Statale di Milano e del Sacco, non ancora pubblicato ma sotto revisione, indica che “l’origine dell’epidemia da nuovo coronavirus può essere collocata tra la seconda metà di ottobre e la prima metà di novembre 2019, quindi alcune settimane prima rispetto ai primi casi di polmonite identificati” a Wuhan nel mese di dicembre.
Ma, avverte Galli, “gli interventi messi in atto oggi per limitarne la diffusione sono estremamente importanti per contenere l’epidemia. Non è il momento di abbassare la guardia o di pensare di avere chiuso il problema, siamo in una fase dinamica”. Soprattutto perché, sottolinea anche lui, “alcuni ospedali sono in grave pressione e tutta la parte delle rianimazioni sta soffrendo per quello che stiamo ricevendo”.
(Estratto di un articolo pubblicato su atlanticoquotidiano.it)