skip to Main Content

Erdoganomics

L’Erdoganomics della Turchia funziona davvero?

Nonostante inflazione record e il crollo della valuta, l'economia della Turchia cresce e c'è chi guarda alla politica di Erdogan - ribattezzata Erdoganomics - come un modello. Possibile? Ecco fatti, numeri, commenti e scenari in un approfondimento dell'Economist

 

Nonostante l’inflazione alle stelle e una valuta a picco, la crescita economica della Turchia continua a stupire e, adesso, addirittura a ispirare emulazione tra i ministri delle finanze di numerosi Paesi emergenti, che guardano con interesse alla stravagante politica monetaria di Ankara.  Il fascino esercitato dalla cosiddetta Erdoganomics è al centro di un recente approfondimento dell’Economist che, da bravo guardiano dell’ortodossia economica qual è sin dal XIX secolo, spiega perché le ricette economiche di Erdogan non sono affatto vincenti.

Il paradosso dell’economia turca

L’economia turca, a ben vedere, non è tra quelle che ispira emulazione. Negli ultimi anni ha conosciuto un’inflazione da record, che ha toccato l’86% lo scorso ottobre. La Banca centrale ha praticamente esaurito le riserve in valuta estera dopo averle usate per sostenere la lira, che continua tuttavia ad essere in caduta libera. A peggiorare la situazione ci sta pensando il Presidente Erdogan, che ha vinto le elezioni sulla base di impegnativi programmi di spesa che faranno affondare il bilancio dello Stato nel profondo rosso.

Erdogan è senz’altro il primo responsabile di questa situazione, con le sue politiche monetarie rovesciate. La sua convinzione di combattere l’iperinflazione abbassando anziché innalzando i tassi di interesse contrasta palesemente con le idee di intere generazioni di economisti ortodossi. Eppure il presidente ha tirato diritto per tutti questi anni, sostenendo che le sue politiche sono ispirate da Allah.

Il fascino dell’Erdoganomics

Per paradossale che sia, nel mondo c’è chi guarda alla Turchia come a un modello. Il Ministro delle Finanze del Ghana è solo uno dei numerosi esponenti di governi africani agli occhi dei quali le teorie economiche classiche hanno perso fascino. Anche Brasile e Pakistan guardano con interesse all’esperimento turco, ignorando la sua inflazione alle stelle e la sua valuta a picco e concentrandosi sulla crescita del Pil turco, che l’anno scorso ha raggiunto un rimarchevole 5,6%.

Il motivo di questa distorsione collettiva rimanda anzitutto alla convinzione che lasciar crescere il livello dei prezzi sia un’opzione appetibile quando un governo ha accumulato troppo debito. Ma a spingere molti Paesi sul sentiero della Turchia c’è anche l’idea che il credito a basso costo possa non solo abbassare l’inflazione ma innescare anche un boom dell’export.

Qui sta l’inghippo

Peccato che questi ragionamenti non tengano conto di come i bassi tassi di interesse alimentino la crescita dei salari e le aspettative delle imprese, due fattori che contribuiscono a far impennare l’inflazione.

La presunzione poi che i bassi tassi di interesse sui bond governativi siano una panacea si scontra con la realtà degli investitori stranieri che fuggono a gambe levate indebolendo ulteriormente la moneta.

Il paper che scagiona Erdogan

Nonostante queste evidenze, che non sorprenderanno la maggior parte degli economisti, c’è chi intravede un filo di ragione dietro al pensiero eterodosso di Erdogan & Co.

L’Economist a tal proposito richiama un recente paper a prima firma della vicedirettrice esecutiva dell’Fmi, Gina Gopinath: studiando le economie di 77 Paesi emergenti a partire dal 1990, Gopinath e gli altri autori del paper hanno scoperto che i tassi ufficiali di interesse hanno avuto un impatto minimo sulle economie reali di quei Paesi

L’anomalia riscontrata da Gopinath si spiega col modo peculiare con cui le banche dei Paesi emergenti prendono denaro in prestito. In assenza di un tessuto autoctono di risparmiatori e di grandi imprese munite di ingente liquidità, le banche per le loro esigenze del credito tendono a rivolgersi ai mercati internazionali. E qui sta il trucco, perché il premio di rischio chiesto dagli investitori esteri tende a scendere quando l’inflazione è alta, segnalando una fase di forte crescita economica che neutralizza eventuali aumenti dei tassi da parte delle Banche centrali.

I mercati internazionali tra l’altro non sono l’unico fattore in gioco. Pesa anche la presenza in quei Paesi di una robusta economia informale, in cui non ci si rivolge alle banche per il credito: e quando per il credito ci si rivolge a prestatori non ufficiali, non è detto che questi ultimi seguano i tassi ufficiali.

Il monito dell’Economist. 

Per quanto possano essere convinti i leader dei Paesi emergenti della bontà dell’Erdoganomics, l’Economist – portavoce da quasi due secoli dell’ortodossia economica – è ben lontano dal dar loro ragione.

La regola aurea per assicurarsi crescita e stabilità, ricorda il magazine britannico, è mantenere il controllo sul deficit e quindi sulle finanze di un Paese, principale criterio che regolamenta le aspettative degli investitori e quindi il premio di rischio su quel debito estero senza il quale l’intero castello crollerebbe.

Ecco perché, conclude l’Economist, è sempre meglio attenersi al rodato pensiero economico classico che “saltare sul carro di teorie stravaganti”.

Back To Top