Le elezioni municipali dello scorso weekend in Turchia hanno punito duramente il presidente Erdogan e il suo partito AKP ma, sottolinea il professor Federico Donelli, chi è causa del suo mal pianga se stesso.
In questa intervista a Start Magazine il docente di Relazioni internazionale all’Università di Trieste e autore di vari saggi sulle politiche di Erdogan tra cui “Sovranismo islamico. Erdogan e il ritorno della grande Turchia” spiega tutte le ragioni di una sconfitta non solo clamorosa ma soprattutto autoinflitta.
Questo turno elettorale in Turchia è stato pieno di sorprese, ma qual è stata quella più eclatante?
La più eclatante non è stata solo la vittoria delle opposizioni, ma il fatto che un singolo partito come il CHP abbia vinto da solo senza correre entro un cartello come aveva fatto alle scorse presidenziali senza vincerle. Stavolta invece ha ottenuto autentici trionfi come le cariche di sindaco a Istanbul e Ankara.
Poi?
Il secondo elemento di novità è l’emergere di un partito islamista diverso da quello del presidente Erdogan, da cui anzi si era staccato. La sua affermazione ci dà la misura di quanto radicato fosse il malessere nei confronti dell’AKP.
Un vero e proprio rigetto?
Sì, ma era da tempo che la gente chiedeva un cambiamento anche all’interno di quel partito, che ha un evidente problema di classe dirigente e anche di leadership. Ma più che di Erdogan, gli elettori sono stufi della sua cerchia, ossia degli yes-men di cui si è circondato nel corso degli anni.
La stampa internazionale converge nell’indicare il malessere economico dei turchi quale causa principale della débacle dell’AKP. Concorda?
Quel malessere economico è profondo e avvertito dalla grande maggioranza dello stesso elettorato di Erdogan anche nelle sue componenti conservatrici e soprattutto fra le classi più anziane.
Quali colpe vengono imputate al presidente?
L’elemento che ha assestato un durissimo colpo all’economia corrisponde con la fase populista di Erdogan tra il 2018 e il 2021, quando ha cercato di gestire la politica monetaria turca con misure che molti hanno definito come “Erdoganomics” e che erano lontanissime dalle regole convenzionali dell’economia.
Per esempio?
L’esempio più lampante è la sua contrarietà ai tassi di interesse, per motivi che alcuni legano al suo credo islamico e altri a questioni di principio. Quali che ne fossero le ragioni, è in quel modo decisamente non ortodosso che Erdogan ha cercato di fare presa sull’elettorato.
Adesso però l’economia, e soprattutto gli elettori, presentano il conto.
Sì, Erdogan sta pagando in prima persona nonostante l’economia turca sia in crescita. Troppo forti infatti le conseguenze dell’iperinflazione e della svalutazione della lira.
Cosa cambierà ora?
Gli elettori costringeranno adesso il presidente a ripensare alla completa centralizzazione del potere perseguita e attuata in questi anni e che ha colpito soprattutto la manifestazione del dissenso. In un certo senso possiamo dire che la pur precaria democrazia turca ha mostrato di avere gli anticorpi, e ciò secondo me deve convincere i critici di questo Paese a respingere i frequenti paragoni con Paesi autoritari come l’Iran o la Russia.
La società civile insomma ha reagito.
Certamente, e – questo va sottolineato – non solo la componente laica ma anche quella conservatrice che fino a ieri votava in massa per Erdogan. Tutti indistintamente appaiono favorevoli a un sistema che sia più democratico e trasparente, e questo è senz’altro il dato saliente di queste elezioni.
L’era Erdogan si avvia dunque a conclusione?
Su questo sarei prudente. Studiando la Turchia da parecchio tempo ho sentito varie volte fare questa previsione, che è stata smentita clamorosamente appena l’anno scorso con la sua rielezione.