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Stati Uniti Russia

Perché il giornalista collettivo non comprende le mosse di Trump e Putin

Il commento di Pierluigi Magnaschi, direttore di Italia Oggi, sul recente incontro fra Trump e Putin ad Helsinki Sono sempre stupito e preoccupato (per loro, ovviamente, oltre che per i loro lettori) nel rilevare come fior di colleghi, magari anche seri e documentati, perdano la loro lucidità quando decidono di entrare nelle confortevoli, anche se mortificanti,…

Sono sempre stupito e preoccupato (per loro, ovviamente, oltre che per i loro lettori) nel rilevare come fior di colleghi, magari anche seri e documentati, perdano la loro lucidità quando decidono di entrare nelle confortevoli, anche se mortificanti, fila del giornalista collettivo, nonostante le pesanti smentite che essi ricevono costantemente dai fatti.

Il giornalista collettivo, tanto per fare pochi esempi, aveva spergiurato sui gas nervini posseduti da Saddam Hussein (anche se poi uno come Tony Blair che quella balla aveva contribuito a diffonderla con tutti i suoi mezzi, Bbc inclusa, riconobbe, ma anni dopo, che erano fake news). Lo stesso giornalista collettivo si era stracciato le vesti per il successivo uso degli stessi gas da parte di Assad. Una settimana fa, in proposito, la speciale commissione dell’Onu incaricata di accertare l’uso dei gas nervini in Siria ha detto che anche questa era una balla. Ma la conclusione è stata pubblicata, in Italia, solo da ItaliaOggi.

Non parliamo della sempre negata possibilità che Trump potesse essere eletto presidente degli Stati Uniti. Il giorno degli spogli la corrispondente dagli Usa della Rai, una implacabile filo-hillariana con la data del timbro postale, continuava a negare la vittoria di Trump anche quando tutti i dati la confermavano, comportandosi come la tizia che viene trascinata nella polvere dalla corriera nella portiera della quale le si era impigliata la gonna. E che dire della matematica certezza, sempre da parte del giornalista collettivo, del fallimento del referendum sulla Brexit?

Lo stesso copione si è ripetuto in occasione del recentissimo incontro fra Trump e Putin ad Helsinki. Anche in questo caso, il giornalista collettivo ne ha puntualmente descritto lo svolgimento e la conclusione, addirittura prima che l’incontro avvenisse. Poi ha fornito tutte le informazioni relative al lungo colloquio fra i due statisti anche se questo si è svolto alla sola presenza degli interpreti ufficiali, selezionati sì per la loro competenza linguistica ma soprattutto per il fatto che essi sono più muti di un pesce.

La conclusione dell’incontro, secondo il giornalista collettivo, è che Trump, nel corso dell’incontro di Helsinki, si è fatto portare in giro da Putin, al quale ha addirittura chiesto che gli fornisse un adeguato guinzaglio per poterlo seguire più docilmente. Siamo, non all’analisi provocatoria (sempre benvenuta a proposito di temi che sono così complessi) ma all’analisi barzelletta.

L’incontro invece, pilotato da Trump, anche se, come al solito, lo ha fatto sgangheratamente con i suoi tweet, è stato sornionamente seguito da un Putin connivente, che ha adottato il basso profilo perché aveva capito che, per ottenere il massimo vantaggio, non doveva prendere l’iniziativa ma limitarsi giocare di sponda con Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha infatti infilzato, a Helsinki, i vertici della sua amministrazione e le frattaglie del suo partito (quello repubblicano) che da troppo tempo si ostinano, per pigrizia e abitudinarie rendite di posizione, a non tenere conto di che cosa è successo nel mondo dopo il crollo del Muro di Berlino (che si è verificato nel 1989, quasi due generazioni fa!).

Non si capisce, francamente, come l’establishment americano (formato dai grandi movimenti politici, dai vertici del Pentagono, dalle potentissime centrali di intelligence, dai centri di ricerca più o meno universitari lautamente finanziati da tutti) continui a vivere la Russia come se essa fosse ancora l’Urss. Cioè una minaccia diretta, adeguata e ineliminabile, dalla cui gestione si esce (nella logica, appunto, della Guerra fredda) o come vincitori o come sconfitti.

Stupisce che cervelli indubbiamente molto sofisticati, che dispongono, come si diceva, di èquipe potentissime di analisti (di gran lunga le migliori, per il momento, nel mondo) non abbiano capito che al mondo bipolare Usa-Urss, sostituito provvisoriamente da un mondo monopolare (dove cioè, nel ruolo di gendarme del mondo, c’era solo un paese, gli Usa) si sta sostituendo, sempre più visibilmente, un mondo tripolare formato da Usa, Cina e Russia.

Se questa è la realtà dei fatti e delle evoluzioni, il problema attuale degli Usa è quello di operare affinché uno dei tre gendarmi del mondo si allei ad essa, se non altro per evitare che possa essere indotto ad allearsi con la Cina. Ma è impossibile per gli Usa potersi alleare con la Russia se quest’ultima viene continuamente provocata militarmente e politicamente. Il parlamento degli Stati Uniti, non solo il suo presidente, per quanto potentissimo, nel momento in cui l’Urss implodeva, per non aggiungere, a danno di Mosca, altri problemi, si era lungimirantemente impegnato a non approfittare delle difficoltà russe per allargare la sua influenza a danno di Mosca in Europa orientale.

Invece sotto le successive presidenze Clinton, Bush jr e Obama gli Usa hanno continuato a estendere la loro area di influenza fino a promuovere (in collaborazione con esponenti nazisti) l’abbattimento del legittimo presidente dell’Ucraina, la sua sostituzione con un loro fantoccio e il tentativo (per fortuna impedito dalla Merkel) di far entrare l’Ucraina nella Nato.

Una politica di questo genere spinge inevitabilmente la Russia a rizzare il pelo, inducendola ad esibire un’aggressività che Putin invece ha avuto il merito, sinora, di tenere sotto tono. Per molto meno, l’allora presidente degli Usa, John Kennedy, minacciò così credibilmente di scatenare una guerra nucleare, quando Kruscev cercava di installare missili sovietici sull’isola di Cuba, da indurre le navi sovietiche che portavano questo carico a l’Avana a fare improvvisamente dietrofront quando esse si trovavano già in pieno Oceano Atlantico.

Trump a Helsinki, contravvenendo ai desideri del delirante ma tuttora potentissimo establishment da Guerra fredda degli Usa, ha giocato la carta dell’intesa con Mosca, sottraendo, di fatto, questo immenso ma economicamente debole paese all’abbraccio con la Cina. Il percorso è ovviamente solo all’inizio ma è anche molto promettente.

L’anello debole, in questo processo, è sicuramente costituito dall’Europa che non è mai stata in crisi come adesso, ma la cui naturale propensione a collaborare con la Russia è stata a lungo e spesso brutalmente frustrata dall’amministrazione americana che si è sempre impegnata a impedire un’integrazione (o anche solo una collaborazione) commerciale con la Russia come anche Trump ha tentato di fare ancora poche settimane fa contro la Merkel, rea, ai suoi occhi, di aver sostenuto la realizzazione del gasdotto del Nord che, a sentire Washington, metterebbe il Centro Europa ai piedi di Mosca.

A Helsinki quindi Putin non ha messo il guinzaglio a Trump, né viceversa. Entrambi invece hanno deciso di costruire rapporti meno conflittuali e prevenuti. Un’altra volta quindi il giornalista collettivo ha preso una sonora cantonata. Meno male, c’è da dire. Purtroppo non a vantaggio della credibilità dei media che continuano nella politica di Tafazzi.

Articolo pubblicato su Italia Oggi

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