Skip to content

guerra israele hamas

Troppo tossico il dibattito sulla guerra tra Israele e Hamas

La lettera di Teodoro Dalavecuras

Caro direttore,

Il discorso pubblico intorno a ciò che accade nel territorio “fra il fiume e il mare”, è sempre più intossicato. Ora è la volta della professoressa Lucetta Scaraffia che si è dimessa dalla Commissione etica di Ca’ Foscari, e il perché lo ha spiegato al Foglio con eloquente chiarezza, riferendo che “L’ateneo veneziano ha deciso non solo di sospendere i rapporti scientifici con enti e istituzioni israeliane, ma di estendere la misura a singoli docenti che non siano in grado di dimostrare di non appoggiare la politica del governo Netanyahu (…). La pretesa di chiedere a un professore di dichiarare la propria innocenza politica (…) somiglia a un dispositivo da regime totalitario”.

Concettualmente, non vedo una differenza di principio tra questo provvedimento e la decisione di sospendere l’esecuzione di un’opera lirica alla Scala sotto la direzione di Valerij Gergiev, in quanto il “reprobo” si era rifiutato di proclamare preventivamente dal palco la sua avversione per l’aggressione militare russa all’Ucraina, e lo stesso si può dire per altri analoghi interventi occasionati dalla guerra in Ucraina. Ma questo non ha impedito a politici di primo piano come Vincenzo De Luca di manifestare opinioni radicalmente divergenti da quelli della vulgata mainstream sul conflitto. Chi ha opinioni diverse dal mainstream non si aspetta di leggerle sui media mainstream, ma neppure si vergogna di esprimerle pubblicamente.

Quel che c’è di specifico del discorso intorno sulla guerra tra Israele e Hamas è una peculiare tossicità, che impedisce ogni possibile scambio di opinioni anche tra persone totalmente estranee, dal punto di vista della condizione personale, al conflitto. Un elemento è ovvio ed è il tema dell’antisemitismo e, contro Israele, del genocidio palestinese. Entrambi vengono utilizzati come “barriere all’ingresso” di ogni dialogo possibile. Criticare la politica di Israele (peraltro largamente criticata in Israele) espone all’intollerabile sospetto dell’antisemitismo, sino a (impossibile, è probatio diabolica) prova del contrario. Condizionare l’interruzione del massacro di Gaza alla restituzione degli ostaggi espone all’accusa di giustificare il genocidio, intollerabile per un ceto intellettuale e mediatico che trova nella retorica dei diritti umani il proprio ubi consistam (valga per tutti il recente grottesco episodio tra l’esponente dell’Onu Francesca Albanese e il sindaco di Reggio Emilia).

C’è anche altro, in concreto. Quando Nemat Shafik, rettrice della Columbia University (si sarebbe dimessa dopo alcuni mesi) per prima chiamò la polizia per far sgomberare il campus dove gruppi di studenti avevano manifestato solidarietà verso la Palestina attendandosi sui prati dell’ateneo, prese un’iniziativa che, oltre a inasprire gli animi (più di cento studenti furono arrestati) le attirò la critica di autorevoli colleghi come lo storico Mark Mazower che aveva potuto assistere, dalla finestra del suo studio, all’intervento delle forza pubblica e lo aveva raccontato, sottolineando il carattere totalmente pacifico delle manifestazioni, in un articolo sul quotidiano ellenico Kathimerini, insolito per un accademico abituato a esprimersi attraverso il propri libri.

Un ulteriore aspetto che provoca dinamiche di intolleranza è il tema – obiettivamente laterale rispetto al conflitto – del sionismo, che i media mainstream tendono a trattare come se fosse interdetto al dibattito storico, sotto pena di ricadere nella fattispecie dell’antisemitismo: pregiudizio radicato l’antisemitismo, certamente, al quale non è estranea la storia della Chiesa Cattolica e, oggi, nemmeno l’espansione islamica in Europa. Ma il modo come se ne parla può attenuarne, o rafforzarne, la presa.

Se però il conflitto di Gaza ha acquistato la capacità di mobilitare un’opinione pubblica che normalmente non presta troppa attenzione a ciò che accade in Medio Oriente, credo sia soprattutto per un altro motivo. Sono ormai tre anni e passa che i media di tutto il mondo raccontano due guerre: prima quella “di Putin” contro l’Ucraina e poi la guerra tra Israele e Hamas. Dopo due anni, però, e 60-70 mila morti sotto i bombardamenti tra la popolazione civile, ci siamo in qualche modo resi conto che le guerre presuppongono due parti belligeranti, ma a Gaza di belligerante ce n’è una sola, ed è Israele: l’avversario, Hamas, sarà sicuramente un manipolo di pericolosi terroristi, ma in due anni di conflitto non ha realizzato neanche una azione bellica. Salvo ovviamente quella iniziale, il “pogrom”del 7 ottobre 2023. Sul quale peraltro molti israeliani da tempo chiedono invano una commissione d’inchiesta, perché non sono totalmente convinti dalle ricostruzioni ufficiali e forse anche perché sono noti da tempo i rapporti del premier Netanyahu con Hamas, ben prima della strage del 7 ottobre.

É psicologicamente comprensibile che lo spettacolo di una potenza che, a propria discrezione, bombarda un territorio accompagnandolo con “danni collaterali” nell’ordine di sessanta o settantamila morti, che si aggiungono alle persone uccise mentre cercavano di raggiungere il luogo in cui si distribuiva il cibo, alla lunga possa infastidire anche un pubblico distratto come quello occidentale, benché il titolo sia “guerra tra Israele e Hamas”: anzi, forse soprattutto per quello.

Alla luce di queste considerazioni mi chiedo, direttore, che cosa ci sia di vero nella notizia che Hamas avrebbe finanziato la spedizione della Global Sumud Flotilla verso Gaza. Se però il criterio dev’essere quello tradizionale del “a chi giova?”, è fuori discussione che il vero beneficiato sia l’Israele di Netanyahu, la cui immagine internazionale è stata massacrata dai massacri, ma che in questa circostanza non ha perso l’occasione di dimostrare in concreto la serietà del suo modo di operare. Circostanza che non lo assolve certamente dai crimini palesi e non palesi di cui si sta macchiando, ma gli dà diritto al rispetto che la serietà, in ogni caso, sollecita. E non ho bisogno di precisare, direttore, chi siano quelli che questo rispetto lo meritano un po’ pochino.

 

Torna su