Thomas Jefferson (1743-1826) ancora oggi è una figura di riferimento dei libertari americani, in virtù della sua ideologia democratico-populista tuttora assai radicata negli Usa (cfr. Paolo Zanotto, “Il movimento libertario americano dagli anni Sessanta a oggi”, pdf). Jefferson, prima rappresentante nell’assemblea della Virginia ed eletto, poi, al Congresso nel 1775, assurse agli onori di “padre-fondatore della patria”, per essersi distinto tra i leader della rivoluzione grazie al ruolo svolto nella redazione della “Dichiarazione di Indipendenza” del 1776. Nel 1779 fu eletto governatore della Virginia e dal 1784 al 1789 svolse l’incarico di ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, periodo durante il quale compì anche un viaggio in Piemonte ed in Liguria. Candidatosi alle elezioni presidenziali del 1796, si piazzò secondo dietro al rivale John Adams, della fazione “federalista”, del quale Jefferson divenne vice-presidente. Presentatosi nuovamente nelle consultazioni elettorali del 1800, risultò primo a pari merito con il compagno repubblicano Aaron Burr, tanto che si dovette ricorrere -per la prima volta dalla nascita degli Stati Uniti d’America- al voto dei congressisti eletti nella Camera dei Rappresentanti in un imbarazzante ballottaggio fra i due. A spuntarla fu proprio Jefferson, grazie al sostegno procuratogli dal voto favorevole dei federalisti di Alexander Hamilton, mentre Burr fu nominato vice-presidente durante il suo primo mandato.
Con il doppio mandato (1801-1809) della presidenza di Thomas Jefferson si aprì ufficialmente una nuova fase nella storia americana, contraddistinta dalla cosiddetta “epopea della frontiera”, che era caratterizzata, a sua volta, dalla “conquista del West”. Se i predecessori federalisti del virginiano, George Washington (1732-1799) e John Adams (1735-1826), durante le prime due presidenze che si succedettero dal 1789 al 1801, avevano interpretato la Costituzione nel senso di un rafforzamento del potere centrale detenuto dal governo federale, all’opposto i repubblicani jeffersoniani, o “democratico-repubblicani”, si battevano in favore di un decentramento del potere politico, avendo a cuore, piuttosto, i diritti degli Stati e le libertà individuali. Da tale contrapposizione si originò, nel 1796, il primo sistema dei partiti -che durò fino al 1828- nel quale Jefferson rappresentava, in particolare, gli interessi agrari del Sud. Lungo il periodo dei suoi due mandati presidenziali, d’altra parte, la società e l’economia attraversarono un periodo particolarmente rigoglioso: le città crebbero e si abbellirono, nella regione del New England si consolidarono le industrie tessili, e nel Sud la coltivazione del tabacco venne in parte rimpiazzata da quella del cotone, che aveva bisogno di molti schiavi negri. Al riguardo, poco prima di lasciare definitivamente la presidenza, Jefferson varò nel 1808 una legge che proibiva il commercio -ma, si badi bene, solo il commercio- degli schiavi. Ciò nondimeno, occorre, per Jefferso il razzismo -che egli accettava scambiandolo per scienza- era un meccanismo indispensabile per far funzionare l’economia delle piantagioni”.
Come ha scritto Malcom Sylvers, “Occorreva poter marchiare, identificare, separare e far disprezzare gli schiavi da tutti per impedire la loro fuga e per assicurare l’egemonia dei grossi piantatori sugli altri bianchi; il miglior tipo di schiavo era dunque lo schiavo nero. Avendo strappato la terra agli Indiani e deciso di sfruttarla nel Sud attraverso una proprietà estensiva si correva il rischio di non poter trovare la manodopera. Quarant’anni dopo la morte di Jefferson, Marx avrebbe raccontato, alla fine del primo volume de Il Capitale, di un capitalista che aveva portato in Australia operai e mezzi di produzione; il piano però non funzionò in quanto una volta arrivati i primi -davanti alla possibilità di diventare coltivatori indipendenti- si rifiutarono di svolgere il compito di lavoratori dipendenti” (“Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson”, Lacaita Editore, 1993).
La presidenza Jefferson fu contraddistinta da un forte pragmatismo, che gli valse l’accusa d’incoerenza da parte di taluni critici e studiosi. Tale autonomia rispetto a qualunque dogmatismo ideologico ha consentito di descrivere l’intellettuale e politico statunitense, di volta in volta, come un democratico o come il suo esatto contrario. C’è chi ha visto in lui un anticipatore del New Deal rooseveltiano, e chi, al contrario, lo ha giudicato un precursore dei suoi avversari conservatori, chi lo ha considerato una specie di comunista ante litteram e chi il campione di un nazionalismo fascistoide. In effetti, lo statista passato alla storia per aver affermato che “il miglior governo è quello che governa meno”, è lo stesso che decise un controverso ampliamento dello Stato federale con l’acquisto, nel 1803, dell’enorme territorio della Louisiana dalla Francia di Napoleone, e con la spinta alla progressiva espansione verso Ovest del paese. Così come, pur convinto e strenuo pacifista, tanto da ridurre l’esercito ad una semplice forza di polizia, si spinse fino alle coste della Libia per bombardare Tripoli nel 1805, inaugurando l’interventismo militare americano al di fuori dei confini nazionali.
Otto anni di governo non privi di contraddizioni, dunque, ma in cui furono gettate le fondamenta di quella democrazia che alcuni decenni più tardi Alexis de Tocqueville (1805-1859) avrebbe analizzato nel suo celebre trattato, svelandone i suoi punti di forza e di debolezza, compresi i pericoli del populismo e del cesarismo che stanno sempre in agguato, soprattutto quando il potere “ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti”.