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Texas, le armi e i giovani

L'intervento di Francesco Provinciali

Quella compiuta dal diciottenne Salvador Ramos nella Robb Elementary School di Uvalde, in Texas, è stata la più grave strage compiuta in un istituto scolastico degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, dopo quella di Sandy Hook, in Connecticut, del dicembre 2012: in quel caso – sempre in una scuola elementare – furono uccise 26 persone, di cui 20 bambini.

Pochi giorni fa c’era stato un altro attacco molto grave: il 14 maggio, a Buffalo, un 18enne aveva ucciso 10 persone sparando all’impazzata in un supermercato frequentato soprattutto da afroamericani. Ma guardando a ritroso negli anni è ricorrente l’angosciante fenomeno dello stragismo agito da giovanissimi, in danno di civili, specialmente minori, in scuole e luoghi di intensa frequentazione. Salvador Ramos , dopo aver ridotto in fin di vita la nonna, è entrato nella scuola (che lui stesso aveva frequentato) del suo paese, una cittadina di 15 mila abitanti, e ha ucciso deliberatamente 19 bambini e le loro due insegnanti, chiudendosi con loro in un’aula e riuscendo a portare a termine la strage prima di essere ucciso dalla polizia. Nei giorni precedenti aveva dato segni di premeditazione, postando messaggi equivoci e minacciosi sui social e fotografando le armi di cui era in possesso, anche se parte della stampa e lo stesso Governatore del Texas hanno sottolineato il fatto che il ragazzo non avesse dato segni di squilibrio mentale in passato.

L’uso delle armi da parte dei minori o dei giovani appena maggiorenni è una piaga endemica negli Usa, favorita da legislazioni permissive e dall’assenza di controlli circa precedenti agìti aggressivi o disturbi mentali e comportamentali : il Texas è uno degli Stati dove ciò è permesso con la più ampia libertà d’uso e ha colpito l’opinione pubblica la conferenza stampa del Governatore del Texas – Greg Abbott – che si è detto contrario ad una revisione restrittiva della normativa concessiva e lassista attualmente in vigore.

Ci sono interessi commerciali ma anche una visione “armata” e “difensivistica” della vita sociale sostenuta in particolare da un folto gruppo di parlamentari conservatori che considerano il possesso di armi e il loro uso uno strumento legittimo di tutela personale. Una escalation di violenza che suscita violenza, in cui attacco aggressivo e difesa discrezionale producono esiti letali.

Il fatto che il problema sussista da sempre senza che sia stata adottata una legislazione più severa ci spiega un clima relazionale e sociale dove pistola, fucile e altre armi anche pesanti sono entrati a far parte di una quotidianità accettata dalle autorità, anche se fortemente osteggiata dalla maggioranza della popolazione.

Il connubio armi-minori è il dato più eclatante e drammatico di questo stile di vita armato, ormai abitudinario e consolidato nell’immaginario collettivo come una spada di Damocle che pende sulla testa di chi per destino ne subisce le conseguenze: l’alternanza di governi democratici e repubblicani non ha intaccato questa deriva pericolosa, anzi nel tempo si è abbassata la soglia di età dei soggetti aventi titolo al porto d’armi, al loro acquisto e ad un uso frequente come passatempo, come se si trattasse di un gioco.

Il fatto che i crimini più efferati siano stati compiuti da giovani o giovanissimi non ha introdotto una normativa sul porto d’armi e – palesemente – ha dimostrato che una pistola o un fucile in mano ad un ragazzo problematico, frustrato da insuccessi scolastici, turbe psicologiche o da disgregazioni familiari, dall’uso di alcool e droga diventano uno strumento letale di morte. Una parte minoritaria dei cittadini degli Stati dove è più alto l’indice di criminalità minorile considera una cosa normale il possesso di un’arma da parte di un minorenne. I giornali americani danno spesso enfasi a fatti che coinvolgono minori nell’uso delle armi come fossero giocattoli: pare che l’azienda che fabbrica il fucile usato da un coetaneo che qualche anno fa aveva colpito a morte una bambina produca circa 60.000 armi all’anno di quel tipo, pubblicizzate con lo slogan “Il mio primo fucile” in un sito che si chiama “L’angolo del bambino”, con numerose foto di ragazzini intenti a colpire bersagli di vario genere. Non è raro che un’arma “vera” sia il regalo più desiderato per un compleanno o il Natale. Secondo l’Agenzia Ansa negli Stati Uniti “ogni ora” un bambino viene colpito da armi da fuoco: tanti sopravvivono, ma centinaia invece muoiono. Il numero preciso di quanti hanno perso la vita a causa della violenza armata di anno in anno non viene reso noto fino a quando i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) non rilasceranno i dati in loro possesso.

Ma nel 2020 era stata superata quota 2.200 – di gran lunga il totale più alto degli ultimi due decenni – e si prevede che il conteggio a consuntivo del 2021 sarà ancora peggiore. Secondo i dati emersi, a Washington l’anno scorso 9 bambini sono stati uccisi in omicidi con armi da fuoco, a Los Angeles 11, a Philadelphia 36 e a Chicago 59. Cifre che peraltro non includono le centinaia di altri bambini morti in sparatorie accidentali o suicidi. Tra le vittime, ricordate dal Washington Post, ci sono due sorelle dell’Ohio, entrambe alle elementari, uccise dal padre, un alunno di terza media dell’Arkansas ucciso a colpi di arma da fuoco a scuola da un amico, e un ragazzino del Texas morto a casa per colpi sparati da una persona che passava in auto. Colpisce la frequenza e l’intensità dei fatti, la disinvoltura con cui si gira armati fin da ragazzi, la mentalità crescente nelle giovani generazioni basata su una concezione ultimativa della vita rispetto all’odio verso gli altri e ai propri fallimenti esistenziali: il tutto per tutto, in una volta, per farla finita.

L’agghiacciante connubio “armi-minori” esiste anche fuori degli Stati Uniti pur non legato a una specifica normativa, quanto piuttosto connesso a una concezione proprietaria e schiavista dei bambini, della loro vita e della loro identità personale e sessuale. Basti pensare ai bambini-soldato e a quelli vittime delle mine, spesso usati come strumenti per sondare la pericolosità di un territorio e – per questo – orribilmente mutilati o uccisi; o ancora far mente locale alla soccombente e pregiudizialmente sacrificale condizione dei bambini di ogni età che vivono nei Paesi dove esistono da anni guerre devastanti o conflitti etnici, religiosi o civili tra opposte fazioni, anche di uno stesso popolo o nazione. Da un rapporto di Save the Children risulta che più della metà dei settantadue milioni di bambini che non hanno accesso all’istruzione, cioè oltre trentasette milioni, vivono nei Paesi colpiti dalle guerre (denominati CAFS) e sono spesso i destinatari finali del commercio di armi leggere mentre sei tra i Paesi del G8 (tra cui l’Italia) sono tra i primi dieci esportatori di armi nel mondo, l’84% delle quali sono le cosiddette “armi leggere”, largamente diffuse e utilizzate, con conseguenze devastanti, da minori. Indonesia, Costa d’Avorio, Sud-Sudan, Uganda, Iraq, Siria, Afghanistan, Burundi, Chad, Colombia, Nepal, Sri Lanka, Angola, Eritrea: sono Paesi che destinano alle spese belliche mediamente oltre il 4% del Pil e nei quali – secondo un Rapporto del Segretariato Generale dell’ONU – vengono addestrati e usati in azioni belliche bambini e bambine-soldato, queste ultime in alcuni casi esposte all’obbligo di prestazioni sessuali. Il conflitto bellico in Ucraina sta moltiplicando la diffusione delle armi tra i civili in un clima psicologico di crescente allarme e tensione: un dramma nel dramma.

Anche nel nostro Paese cresce il numero di chi gira armato e si abbassa la soglia di chi entra in possesso di una pistola, specialmente attraverso le vie dell’acquisto illegale.

Quindi anche in casa nostra si moltiplicano gli episodi di aggressività come derivato del bullismo, diffuso come stile di vita da social o siti che andrebbero immediatamente oscurati. Famiglia e scuola dovrebbero riappropriarsi di un ruolo formativo, preventivo, di controllo. Per contrastare la violenza bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività con azioni positive. Ciò vale dunque anche per l’Italia, pur in un contesto sociale caratterizzato da consuetudini e modelli di vita diversi da quelli di altre contingenze geografiche. Senza caricarla di ulteriori responsabilità, questo compito deve passare attraverso la scuola come principale “agenzia” di educazione alla pace, a cominciare dai rapporti ‘con’ e ‘tra’ gli alunni e dalle relazioni intense con le famiglie. Davvero il sogno che l’umanità dovrebbe coltivare è quello di far scomparire tutte le armi dalla faccia della Terra: il fatto che invece ci si affidi ad esse dimostra che la pace resta solo un’utopia e neanche nel cuore di tutti.

Francesco Provinciali

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